Il tempo trascorso lascia intatto il senso di disagio suscitato dall’indagine sul razzismo fascista e sulle conseguenze irreparabili che ne derivarono. Fra i tanti percorsi, spicca lo scavo nelle istituzioni, che consente di inquadrare i casi individuali entro cornici complesse. Si vede così che il contesto, dalle aziende alle scuole, fu raramente umano, spesso feroce, per lo più indifferente.

Emblematico l’ambito delle università. In anni recenti, gli atenei hanno ripercorso le proprie vicende interne, talora con franchezza. Il settore dell’antichistica implica il nesso tra fascismo e studi classici, sulla linea tracciata da Luciano Canfora. Gli esiti sono di sicuro interesse, come in un convegno recente (Antichistica italiana e leggi razziali, a cura di Alessandro Pagliara, Athenaeum 2020, discusso su «Alias D» il 28 giugno 2020).

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Viene ora messo a fuoco un caso di studio, che andò oltre l’esclusione, la segregazione o l’esilio, con un tragico esito ad Auschwitz. Lo tratta Federico Melotto, Un antichista di fronte alle leggi razziali Mario Segre 1904-1944 (Viella, pp. 340, € 24,00). La fine di Segre fu risaputa presto. Nel novembre 1945, a Parigi, l’epigrafista francese Louis Robert commemorava lo studioso italiano ucciso quarantenne, già noto per il lavoro svolto sulle iscrizioni greche nelle Isole italiane dell’Egeo: ne elogiò la larga informazione, la penetrante curiosità, l’ingegno capace di sottigliezze, e ne definì l’assassinio «una perdita molto grave per l’epigrafia, una perdita irreparabile per la scienza italiana».

Eppure la vicenda è poco nota e la parabola di Segre è rimasta «ingiustamente inesplorata». Certo, non era un oppositore, né un accademico «strutturato» (professore di liceo, comandato in Egeo, e incaricato di epigrafia a Milano). Uscito da un percorso formativo non lineare, giovanissimo si interessò di geografia e studiò un poema su Colombo, che fu il suo primo libro. Dedicò la tesi al periegeta greco Pausania, e ne derivarono saggi importanti. Il soggiorno alla Scuola archeologica di Atene, con Alessandro Della Seta, lo condusse verso l’epigrafia, cui si formò quasi da autodidatta, con grande perizia. Lavorò per anni nel Dodecaneso, grazie al suo impegno tenace e all’appoggio indispensabile di figure come Mario Lago e Cesare De Vecchi.

Imprecisabile la sua attitudine politica: antifascista era certo il fratello filosofo Umberto (1908-1969). In Egeo toccarono a Segre anche miserie nostrane, come l’ostilità, o l’invidia, di un sovrintendente archeologo. Poco prima dell’entrata in vigore delle leggi razziste, nel fatale settembre 1938, illustrò la propria attività al Primo congresso internazionale di epigrafia, ad Amsterdam.

Nell’occasione, come ricordò nel 1945 Robert, fu presentata una nuova rivista italiana di epigrafia: «un primo fascicolo … conteneva un articolo di Segre», ma l’editore «si preoccupò di far sparire quell’articolo, quando poi distribuì in libreria il fascicolo». Decaduto dalla libera docenza, dovette affidare ad altri le proprie ricerche mentre, con caratteristica ambiguità, gli si permise di continuare a lavorare in Egeo fino alla primavera del ’40. Gli fu negato di pubblicare a stampa: scritti suoi importanti vennero bloccati, altri rimasero inediti, anche per decenni. Nonostante una posizione sempre più incerta, Segre rimase orgogliosamente certo di essere indispensabile alla grandezza della scienza italiana poiché era l’unico in grado di studiare le iscrizioni del Dodecaneso.

La sua dedizione fu sfruttata dal potere fascista, a proprio piacere. Rientrato in Italia, e rifugiato a Roma nei mesi dell’occupazione nazista, fu arrestato insieme alla famiglia, nella primavera del 1944. Che il fatto derivasse da una delazione è questione rimasta a lungo celata dietro imbarazzi e silenzi.

Melotto, contemporaneista, ha inteso scrivere non una biografia, per limiti di accesso alla documentazione privata, né un saggio di storia degli studi, dato il carattere tecnico dei lavori epigrafici (per i quali s’appoggia totalmente a giudizi altrui). Pur incentrato sulla fase cruciale 1938-’44, il libro considera il contesto familiare, la carriera scolastica e universitaria di Segre. Ne esce la figura di uno studioso precoce, e poi determinato a proseguire ostinatamente le proprie ricerche epigrafiche, nonostante tutto. S

egre era fuori d’Italia, per studio, tra il 1939 e il 1940: un incrocio di circostanze e il pensiero della famiglia non lo condussero verso quell’esilio che fu salvezza per molti. Altri antichisti, come Momigliano, Piero Treves o Doro Levi, furono indotti dalla persecuzione e dall’esilio a svolte notevoli, talora definitive, nel percorso di ricerca. Segre, invece, cercava ancora nel ’42 di rientrare a Rodi per studiare le iscrizioni: credette di poter sfuggire alle leggi italiane, ma con le deportazioni naziste nemmeno istituzioni importanti (compreso il Vaticano) valsero a salvarlo.

La sua vicenda biografica è ricostruita, con qualche lacuna, attraverso un accurato studio di memoriali, documenti d’archivio e carteggi. Meno felici sono nel libro talune integrazioni o induzioni ricavate da aperture tra il narrativo e lo speculativo. Sviluppi ulteriori offrirà lo studio dei contesti e delle «reti» di relazione, come le sedi di pubblicazione dei lavori epigrafici, ora fascisticamente qualificate (come l’Istituto F.E.R.T. di Rodi o la rivista «Historia», fondata da Arnaldo Mussolini), ora ideologicamente neutre (come i periodici «Athenaeum» e «Rivista di Filologia»).

Importante è un dettagliato quadro della prosopografia degli antichisti tra le due guerre, segnata da potenti «scuole» in dissenso o concorrenza tra loro, in funzione di carriere e concorsi. Anche Segre entrò in polemiche accademiche, scontrandosi sulla storia di Coo con Aldo Neppi Modona, oggetto dei duri attacchi di Arnaldo Momigliano su temi etrusco-romani. Vero è che la «genealogia» scientifica di Segre non è ben definibile. Non ebbe infatti un vero «maestro», sì vasti ed efficaci contatti scientifici, all’estero e in patria. Le istituzioni italiane con cui collaborò erano, evidentemente, del tutto integrate al regime, ma singoli studiosi con cui dialogò erano estranei al fascismo.

Per Melotto, la chiave che tiene insieme queste facce, non tutte coerenti, è la devozione alla ricerca. Pensando a celebri studi, e alla biografia di Momigliano, ci si chiede in che modo Segre, ebreo piemontese, affrontò, dopo il 1936, la fine del patto con la monarchia, maturato a partire dallo Statuto albertino, e l’affermazione di un «antisemitismo di Stato»: sono i temi discussi, per esempio, in importanti pagine di Alberto Cavaglion (La misura dell’inatteso. Ebraismo e cultura italiana (1815-1988), Viella 2022).

Il libro ripercorre con chiara efficacia la storia del faticoso percorso compiuto dagli studi italiani sul razzismo e la persecuzione, valorizzando la «svolta» del 1988. In varie fasi vi si nota la spinta, che pur ricorre, a minimizzare, a non «esagerare» nella denuncia di responsabilità, complicità, viltà italiane. Ai sopravvissuti, certo, poté nel dopoguerra apparire preferibile, o necessario, tenere un profilo basso, evitando l’aperta rivendicazione di quanto subìto. Oggi è tempo di definire con chiarezza il ruolo dei «carnefici italiani», dei complici e dei conniventi. Non per tribunali postumi, ma nella certezza che l’accaduto è insanabile, e senza farsi illusioni sulle lezioni della storia: «ti hanno cacciato via biecamente / pensa solo ai colleghi dell’università / diceva continuamente / tutti cacciatori di ebrei» (Thomas Bernhard, Heldenplatz).