Marino, la capriola del Pd: mai badato all’inchiesta
Campidoglio Il commissario romano e presidente del partito prova a scaricare tutte le responsabilità su Sel. La ricostruzione della vicenda lo smentisce
Campidoglio Il commissario romano e presidente del partito prova a scaricare tutte le responsabilità su Sel. La ricostruzione della vicenda lo smentisce
Tra i tanti paradossi della politica italiana quello di ieri resterà tra i più vistosi: un ex sindaco assolto e il partito che prende peggio la notizia è proprio quello che lo aveva candidato. Non tutto il Pd, sia chiaro. Massimo D’Alema e Walter Veltroni hanno immediatamente telefonato all’assolto per complimentarsi. La minoranza gioisce. Roberto Speranza sottolinea che lui non aveva mai «avuto dubbi nel fatto che fosse una persona per bene». Gianni Cuperlo, elegante, dribbla la polemica politica per esprimere «un sentimento umano: è una bella notizia». La stessa destra si felicita, per non parlare di Sel-Si. Ma ai piani alti del Nazareno circolano altri umori. Per loro la novella è pessima. Una condanna avrebbe giustificato a posteriori la scelta di cacciare brutalmente un sindaco eletto. L’assoluzione ingigantisce quella clamorosa scorrettezza.
Orfini cerca di mettere le mani avanti con un tweet che si rivela subito la classica pezza peggiore del buco: «Chiedemmo le dimissioni di Marino non per gli scontrini (a farlo fu Sel) ma perché incapace di risolvere i problemi di Roma». Difficile sommare tanti svarioni nello spazio limitato concesso dal cinguettio. L’idea che giudicare l’operato di un sindaco e licenziarlo spetti «al partito» invece che agli elettori rivela una concezione della democrazia tanto personale quanto condivisa dal Matteo di palazzo Chigi. Al confronto Grillo, che non ha mai chiesto né imposto le dimissioni di Pizzarotti, pare un campione dell’antiautoritarismo.
La stilettata velenosa su Sel, invece, indica che il vizietto della bugia accomuna il Matteo romano e quello fiorentino. Una rinfrescata alla memoria potrebbe giovargli. Nel luglio 2015, dopo aver martellato la giunta Marino per mesi accusando il sindaco di non saper governare Roma, Renzi lo mise di fronte a un ricatto senza precedenti: eliminare il vicesindaco di Sel Luigi Nieri e inserire nella giunta elementi scelti da lui o ricevere il benservito dal leader che in tutta evidenza si riteneva il padrone di casa, Matteo Renzi. Orfini, che si presentava allora come il solo difensore di Marino di fronte al Renzi furioso, consigliò di accettare il diktat.
Marino scelse di piegarsi, mettendosi così nelle mani di Renzi. Al posto di Nieri subentrò Marco Causi, forte evidentemente dei brillanti risultati ottenuti come assessore al bilancio di Veltroni. I trasporti, che per chiunque provi a governare Roma sono la prima linea ancor più della spazzatura, furono affidati al senatore Stefano Esposito. Si presentò subito chiarendo che non era romano e non conosceva la città, non prendeva mai i mezzi pubblici e dunque non sapeva niente neppure di quelli. Però era un renziano di provata fede e tanto evidentemente bastava.
Sel non potè fare altro che uscire dalla giunta, che si trasformò così in un monocolore Pd. Quando assicura di aver messo alla porta una giunta tutta Pd e con numerosi assessori scelti dal segretario premier,a quanto pare senza neppure l’esile alibi degli «scontrini» e sapendo di consegnare così quasi certamente la capitale agli eredi di Alemanno o ai 5S, Orfini ammette senza rendersene conto che o il Pd era in assoluto il peggiore in campo oppure era in mano a una banda di irresponsabili. La nuova giunta con Marino commissariato di fatto viaggiò in direzione diversa e a volte opposta dalla fase precedente. Sel pensò a una mozione di sfiducia con l’esplicito intento di costringere il Pd a un dibattito su quel cambiamento di rotta. Non a caso ieri, alla conferenza stampa dell’ex sindaco assolto, c’erano Nieri e il segretario romano Cento e non i vertici del Pd.
Dopo mesi di gaffes del sindaco, a volte vere, spesso montate da una stampa che rispondeva a interessi tutt’altro che mascherati, gli «scontrini», checché ne dica Orfini, fornirono a Renzi un alibi. Fece dimettere gli assessori che aveva scelto al posto di Marino. Tutt’altro che certo sulle dimissioni dei consiglieri impose, come mai prima si era verificato e si spera mai più si verificherà, di firmarle dal notaio. Dalla sentenza di ieri escono un vincitore e due vinti. Il primo è Ignazio Marino, i secondi sono Renzi e Orfini.
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