Nelle lettere spedite negli anni Trenta dai sobborghi parigini di Clamart e Vanves, Marina Cvetaeva lamentava spesso la mancanza di una «stanza tutta per sé» che le consentisse di isolarsi dal caos domestico per dedicarsi alla scrittura. I suoi ripetuti sfoghi verbali sull’impossibilità di ritagliarsi un po’ di quiete sembrano materializzarsi visivamente in un bel disegno a matita della figlia Alja, che la raffigura seduta al tavolo di cucina, impegnata nell’esasperante tentativo di concentrarsi. Lo sguardo assorto che fissa un punto indefinibile davanti a sé, i gomiti confitti nel legno, le mani ostentatamente premute sulle orecchie – tutto in questo rapido schizzo tradisce l’esasperazione di chi non riesce a trovare pace.

Unica via di fuga è la retta immaginaria che dagli occhi socchiusi della modella precipita sul tavolo lasciato vuoto. Manca un qualsiasi elemento (un foglio, un quaderno) che permetta all’osservatore di stabilire se Marina Cvetaeva stia effettivamente scrivendo.

Invisibile bersaglio della sua attenzione potrebbe essere il vuoto, una poesia riluttante a prendere forma, oppure una nota da consegnare ai suoi Taccuini datati 1922-1939 e proposti ora da Voland (pp. 320, € 20,00) per la cura sensibile e meticolosa di Pina Napolitano.

Centrati sugli anni «dopo la Russia», ovvero successivi alla partenza da Mosca nel maggio 1922, questi quaderni di appunti si prestano a essere letti come una inesplorata fonte di dettagli biografici. Benché inframezzati a liste della spesa, elenchi di debiti da saldare e promemoria vari, vi si ritrovano inequivocabili riferimenti a pressoché tutti gli eventi cruciali della vita della poetessa emigrata, vale dire a quegli «indizi terrestri» (così li definiva Cvetaeva) su cui si è focalizzata nel tempo la curiosità non di rado pruriginosa dei suoi biografi. Dalla passione rovinosa per Konstantin Rodzevič, compagno d’armi e di studi di suo marito, a quella platonica ma non meno intensa per Boris Pasternak, passando per la sensazione di una irrimediabile incompatibilità con l’ambiente letterario émigré, non c’è moto dell’animo che non trovi riflesso in queste pagine, condensandosi ora in abbozzi di lettere mai terminate, ora in osservazioni caustiche, ora in aforismi di abbagliante lucidità.

Tuttavia, proprio in virtù di questa loro natura eterogenea, irriducibile alla scrittura diaristica pura, i Taccuini possono essere considerati anche al di là del mero dato esistenziale come uno strumento di lavoro (oltre che di introspezione e analisi) fondamentale per comprendere cosa fosse la scrittura poetica per Cvetaeva. Al contrario di Osip Mandel’štam, che componeva camminando e non consegnava quasi mai alla carta i propri versi, se non dettandoli alla moglie Nadežda, la poesia di Cvetaeva sembra scaturire proprio da questo corpo a corpo con il quaderno di appunti, dal contatto fisico con il tavolo (non a caso, nello schizzo di Alja è il suo spigolo arrotondato a definire in gran parte la silhouette della modella), da un’opera di tenace «auscultazione di una traccia sonora che risuona intermittente, in maniera più o meno distinta» e che però subisce fatalmente l’interferenza dei rumori della vita quotidiana.

Da qui il carattere spurio dei Taccuini, residuo tangibile di questo precipitato a un tempo uditivo e emotivo, in cui le varianti di una medesima poesia (riportate una di seguito all’altra, quasi quella precedente generasse e non sostituisse quella successiva) possono mischiarsi liberamente ai conti della drogheria o a stenogrammi di sogni. Allo stesso modo appunti su divinità greche o egizie per pièce teatrali mai scritte si interrompono bruscamente, lasciando spazio a siparietti familiari. Ad esempio, particolarmente spassosa è la pagina in cui Cvetaeva e il marito Sergej Efron commentano a due mani, passandosi il quaderno, una «noiosissima» conferenza di Rudolf Steiner cui assistettero insieme a Praga nel 1923.

Se dunque sfogliati fugacemente i Taccuini colpiscono per la disomogeneità del loro contenuto, quasi l’unico elemento ricorrente fosse la caparbietà «bovina» (così Cvetaeva) con cui l’autrice dalle incombenze domestiche torna di volta in volta alla scrittura, a una lettura diacronica emerge invece un preciso filo conduttore che, richiamandosi a un tema caro a Mandel’štam, si potrebbe sintetizzare come «allenamento alla morte». I quaderni tradotti da Napolitano (specie quelli degli anni Trenta) testimoniano infatti un progressivo distacco dalla vita, una dolente disaffezione ai desideri, una rassegnata accettazione della fine, che precedono di molto il suicidio, a Elabuga, il 31 agosto 1941. Benché questo gesto di disperazione ultima resti ovviamente fuori scena, come i fatti di sangue nella tragedia greca, considerazioni malinconiche sembrano preannunciarlo, come se la rottura con il mondo dei vivi si fosse già inavvertitamente consumata e alla poetessa non restasse che trarne le conseguenze.

Solo il desiderio di far piacere con risibili favori «a quelli che restano», ovvero ai familiari, nonché l’attaccamento a cose apparentemente banali trattengono ancora Cvetaeva su questa terra: «Quando guardo i miei dizionari e i miei quaderni mi viene voglia di restare in questo mondo ancora per almeno un centinaio d’anni», scrive nell’ottobre 1933. Incolmabile ormai è la distanza con la versione adolescente e egocentrica di se stessa («A 14 anni ero convinta che fossero i miei occhi ad accendere a Mosca i lampioni»), persuasa che le città e le persone da lei intensamente «abitate, animate, spremute» sparissero irrimediabilmente dopo la sua partenza, come sprofondate nel nulla. Quando il 12 giugno 1939 Cvetaeva insieme al figlio quattordicenne Georgij salpa dal porto di Le Havre alla volta di Leningrado, sa che la Parigi degli emigrati russi continuerà a vivere tranquillamente anche senza di lei, e che il suo sarà molto probabilmente un viaggio senza ritorno: «Posando il piede sulla passerella ne avevo la chiara consapevolezza: l’ultimo palmo di terra francese».

Eppure, malgrado questi infausti presagi, la traversata di quasi una settimana a bordo del piroscafo Marija Ul’janova (sorella di Lenin) le ispira un magnifico pezzo di scrittura (finora ignoto) che da solo vale la lettura dei Taccuini. Tramonti color lampone; i tetti e i boschi fiabeschi della Danimarca all’orizzonte, cui presto subentrano innumerevoli vele rosse e verdi appena giunti in prossimità della Svezia; l’acqua del Mar Baltico di un blu intenso, così diverso dall’azzurro del Mediterraneo; la spensieratezza degli altri passeggeri (quasi tutti esuli spagnoli del Fronte Popolare) – tutte queste impressioni sembrano per un attimo riconciliare Cvetaeva con la vita. Ma non è che una sensazione fuggevole, destinata a svanire immediatamente una volta che la nave arriva a destinazione: «La mattina mi sono svegliata, ho pensato che i miei anni sono contati (poi lo saranno – i mesi…) Sarà un peccato. Non solo per me stessa. Perché nessuno come me – ha amato tutto questo».