Marie-Hélène Estienne

«La Tempesta è un enigma. Peter Brook l’ha portata in scena molte volte, ma credo che con quello che stiamo facendo ora una parte di questo enigma sia risolto». È con decisione e allo stesso tempo con dolcezza che parla Marie-Helène Estienne, braccio destro del grande maestro del teatro scomparso lo scorso anno. Un legame che dura dagli anni ’70, quando Estienne iniziò ad occuparsi del casting, per poi passare alla scrittura e infine alla condivisione della regia con Brook. Incontriamo Estienne all’Auditorium Parco della Musica di Roma, dove fino a domenica è in scena Tempest Project grazie a Romaeuropa Festival. È l’ultimo lavoro di Brook, «un saluto, ma anche un modo per restare» spiega; l’esito di una ricerca iniziata nel 1957, quando per la prima volta il maestro mise in scena l’opera definitiva di Shakespeare.

Come avete lavorato insieme a questa nuova versione?

Peter non era totalmente soddisfatto, nemmeno della «grande Tempesta», quella realizzata insieme a Jean-Claude Carrière nel 1990. Nel testo di Shakespeare ci sono scene molto difficili: alcune di livello altissimo, altre che sembrano portare fuori strada. Abbiamo ridotto la pièce, mettendo l’accento sul perdono e sull’amore, due aspetti essenziali dell’opera. Prospero ha bisogno d’amore: per questo fa di tutto per far unire la figlia Miranda con Ferdinando, mentre allo stesso agisce affinché ciò non avvenga. Anche qui c’è un enigma, ma forse tutte le grandi opere ne contengono almeno uno. Per Tempest Project c’è stato un lavoro di ri-adattamento rispetto ad una prima versione in inglese, abbiamo recuperato le registrazioni che avevamo fatto al Théâtre des Bouffes du Nord con la cantante giapponese Momoyama Harue, morta nel 2008, la sua voce portava un elemento sciamanico che ci ha aiutato molto in questa nuova lettura. Ci è venuto in mente solo dopo, perché? Non so dirlo, ma così accade la vita: ci sono alcune cose che in determinati momenti arrivano, c’era un bisogno che prima non avevamo visto.

La redazione consiglia:
Peter Brook, un pensiero etico per reinventare il teatroIl ruolo di Prospero, sin dalle prime messe in scena, è stato affidato a un attore di origini africane. Perché?

Anche questo è un mistero. L’attore che oggi lo interpreta, Ery Nzaramba, è molto diverso da Sotigui Kouyaté, protagonista della versione del 1990. Era con noi dal Mahabharata: per trovarlo ero andata in una sala di montaggio a Parigi dove lavorava una donna che montava tutti i film africani, e ecco che all’improvviso sullo schermo vedo Sotigui. Una grande figura che rappresentava l’Africa in persona. Ery è più giovane, meno conosciuto, ma viene dal Ruanda: ha vissuto un genocidio. E credo che questo trascorso terribile sia legato alle sue qualità uniche. Aveva già lavorato con noi, ed era evidente che doveva essere lui. Il casting è sempre stato una parte del mio lavoro: lo si vede subito quando quella è la persona giusta. Negli attori africani c’è una sottile libertà rispetto agli altri, un attore francese con un approccio tradizionale difficilmente sarà altrettanto interessante. Nella storia di Peter, le porte aperte all’Africa sono state fondamentali, come lo fu l’incontro con l’attore del Mali Malick Bagayogo Bowens. Il punto è la mescolanza delle diverse culture, lui ha scritto molto su questo, per me si è sempre trattato di trovare le persone giuste.

La domanda più semplice e allo stesso tempo più difficile: com’è per lei portare in scena questo spettacolo senza Brook?

Quando lavoriamo con gli attori, quando proviamo, va tutto bene: è uno spettacolo vivo, bello, come lo è la troupe. Ma quando mi siedo e mi rendo conto che lui non c’è, non è facile. Fa male e aiuta allo stesso tempo: è quello che fa la vita, sempre, e il lavoro di Peter era molto legato alla vita. Lui non voleva grandi omaggi, ma desiderava che la sua opera continuasse e che i giovani la conoscessero: soprattutto per questo ha scritto. Per lui il rapporto umano era fondamentale, quello con gli attori poi in particolare, c’era qualcosa di speciale lì, e in 45 anni posso dire di aver imparato qualcosa. Se noi siamo toccati da quello che facciamo, possiamo toccare gli altri, è come una catena.

La redazione consiglia:
Il miracolo di Peter Brook è il perdono di ProsperoParlava prima di perdono, un gesto che sembra spesso molto lontano dal nostro mondo.

È vero, ma credo che tutti noi in quanto esseri umani abbiamo questa possibilità, che per varie ragioni purtroppo non si verifica. Nonostante tutto bisogna andare avanti perché scrivere, cantare, recitare, sono cose belle che possono aiutare, anche nel terribile contesto in cui siamo, dove la politica è veramente brutta. Ad esempio, ciò che è accaduto in Italia con Lissner, con cui abbiamo lavorato nel passato, mi ha lasciata di stucco, ma all’opposto sono toccata dal modo in cui il Papa ha parlato dei migranti. Non si può uccidere l’umano nell’umano, non del tutto. Anche nei paesi totalmente sottomessi ci sarà qualcuno che racconterà una storia, che creerà qualcosa, che troverà il suo spazio. Certo i mezzi si sono ridotti, una volta per noi era normale arrivare all’Argentina e trasformarlo completamente, ora non è più così, ma non bisogna lamentarsi troppo, è più importante continuare a fare.