Si è spento sabato scorso a Parigi Peter Brook, 97 anni, uno dei padri, e dei maestri e «idoli» del teatro contemporaneo. L’ultima volta che era apparso al pubblico italiano era stato pochi mesi fa, dallo schermo del telefonino dello stilista Cucinelli al termine della rappresentazione, dove ringraziava commosso e chiedeva quasi scusa per non avercela fatta ad esser presente ad accompagnare il suo spettacolo, la Tempesta shakespeariana ospitata nel teatrino di Solomeo. Uno spettacolo che al di là delle apparenze, conteneva ancora tutti gli elementi della poetica di Brook: la contemporaneità della vicenda col pubblico, la semplicità strutturale del racconto, l’affidamento totale alle capacità espressive degli attori. E una grande morale: solo il perdono a volte può porre fini ai conflitti e alle offese.

Peter Brook
Les Bouffes sono lo spazio camaleontico che sognavo, capace di stimolare e liberare l’immaginazione dello spettatore, dove una condivisione è possibile

AMAVA l’Italia Peter Brook, e per un lungo periodo è stato possibile incontrarlo, e parlarci amichevolmente, sempre cordiale, pieno di sapienza e di humour, a casa Nonino in Friuli: la prima volta ci era arrivato per il premio assegnatogli come «maestro del nostro tempo». Poi entrò in giuria, e due anni dopo ebbe la forza di far assegnare quello stesso titolo a colui che riconosceva come «suo» maestro, Jerzy Grotowski. Spesso arrivava accompagnato dalla moglie Natasha Parry, attrice di alta classe made in Stratford, alla quale aveva fatto dono di un allestimento, su misura per lei, dei Giorni felici di Beckett. Alla morte di lei, nel 2015, Brook aveva stretto ancor di più il legame con Marie Helene Estienne, sua assistente artistica di lunga data. Anche i figli dell’artista, Simon e Irina, fanno teatro e regia, lei è regista residente allo stabile di Venezia.
Peter Brook era nato vicino Londra, da genitori di origine baltica, e dopo la laurea, si era formato teatralmente alla Royal Shakespeare Company. Ed era stato presto direttore di un colosso lirico come il Covent Garden, e poi della stessa istituzione shakespeariana. Così che ebbe modo di dirigere, in scena e anche in qualche film, colossi interpretativi come Paul Scofield e John Gielgud. E attori che diverranno poi celeberrimi, come Helen Mirren, fidanzata allora con Bruce Myers, che diventerà invece a sua volta una colonna del teatro parigino di Brook. Il quale in quegli anni metteva in scena molti testi di Shakespeare, ovviamente, ma anche altri meno conosciuti. Alcune sue regie hanno fatto storia: chi ha visto il suo Sogno di una notte di mezza estate (che passò nel ’72 anche a un festival della Biennale a Venezia) difficilmente potrà dimenticare quelle creature che volavano con la fiaba su enormi altalene dondolanti.
Ma a fianco dei classici amava e scopriva opere di autori nuovi che lui rese fondamentali: non solo Genet e Beckett, ma il Marat Sade di Peter Weiss che consacrò lo scrittore tra i massimi drammaturghi del Novecento, e pose l’intreccio tra politica e libido tra gli oggetti di massima attenzione, sul palcoscenico come nel film che lo stesso Brook realizzò (e di Weiss fu tra i primi a mettere in scena L’istruttoria sul processo di Norimberga). Come fu rivelatore di nuovi territori il suo Orghast realizzato sull’altopiano iraniano, che scopriva l’infinito e sorprendente orizzonte del lavoro sulla voce.
Qualunque aspetto del teatro Brook approfondisse, diveniva fondamento di nuovi territori artistici, da Artaud a Grotowski, dai classici alle nuove scritture. Tanto che lui, continuando a inventare nuove esperienze di palcoscenico (che magari poi spesso immortalava sullo schermo) decise di «ricominciare» fondando una nuova casa teatrale, tutta sua quanto aperta al nuovo. E nel 1974 si trasferì a Parigi. Prese un teatro ottocentesco abbastanza degradato dal tempo, tra la Gare du Nord e Pigalle, proprio sulla Périphérique: Les Bouffes du Nord. Zona ultrapopolare di immigrati, che quello spazio, lasciato nella trascurata «povertà» in cui lo aveva trovato, ha trasformato in luogo capitale del teatro mondiale. A dirigerlo a fianco a lui, Stanislas Lissner, poi chiamato a sovrintendere alla Scala (e ora al San Carlo di Napoli).

ATTRAVERSO spettacoli successivi, Brook ha costretto il mondo intero ad andarvi quasi in pellegrinaggio, ogni volta, e ad ogni spettacolo, allargando le proprio pubblico. Un’audience anche molto popolare, come quello che per lungo tempo è accorso da tutta Europa a gustare la meravigliosa Tragedie de Carmen che il regista ha saputo rinnovare, nel rispetto assoluto dell’originale, ma «traducendola» visivamente per una vasta sensibilità contemporanea.
Alle Bouffes sono nati così una serie di capolavori (possibili anche per la collaborazione attenta e implacabile della direzione organizzativa di Micheline Rozan, e ancor più per la presenza costante e sapiente di Jean Claude Carrière, il grande drammaturgo e sceneggiatore recentemente scomparso). Tra questi, il più cospicuo resta forse nella memoria, anche per l’impegno produttivo, la durata delle prove, e il numero e l’impegno degli interpreti (tra i quali primeggiava il nostro Vittorio Mezzogiorno) il gigantesco Mahabharata (nove ore la durata), del 1985, divenuto poi anche un film dopo anni di repliche in tutto il mondo (in Italia al Fabbricone di Prato).Uno spettacolo kolossal e insieme intimo, che ripercorreva mitologie e storiche leggende, scoprendo al pubblico i segreti culturali e antropologici dell’India più profonda.

MA POCHI anni prima, ci aveva già introdotti a una lettura più intima e privata dell’Amleto shakespeariano sotto il titolo Qui est là?, che è la ambigua domanda della prima battuta del testo. E fondamentale resta anche l’indagine nei testi psicologici del presente: un titolo per tutti L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, tratto dalla ricerca scientifica di Oliver Sacks (e dopo pochi anni avrebbe portato in scena anche gli studi neurocerebrali di Luria…).Una curiosità onnivora la sua, ad amplissimo raggio, che formalizzava con straordinaria facilità in racconti teatrali semplici quanto penetranti. Che fossero stati scritti da Shakespeare, o dai nuovi drammaturghi della coscienza critica nell’Africa postcoloniale: rimangono inquietanti nel ricordo spettacoli, pur ambientati dopo la riscossa di Mandela, come Il vestito, Tierno Bokar, e di Athol Fugard Sizwe Banzi è morto.
Insomma è stato davvero un maestro a tutto campo Peter Brook, di teatro e di «moralità» teatrale, che ha siglato la scena del ‘900 mettendone in luce nuove possibilità, senza rinnegare la tradizione ma lavorando anzi a darle nuova e vivificatrice linfa. A fianco al maestro del palcoscenico però, ci sono almeno altri due aspetti che vanno ricordati.

IL PRIMO è quello scientifico del divulgatore, che mentre racconta e indica (come faceva lui spesso, con l’indice puntato), riesce a racchiudere la sua idea ed esperienza di teatro in un nugolo di libri che possano servire a nuove generazioni, di teatranti e di spettatori. Basta scorrere l’elenco dei titoli, per la maggior parte ancora in commercio, per delineare l’ampiezza del suo orizzonte, e la straordinaria sua capacità evocativa, con poche parole, di indicare un ambito, tra esperienza e necessità: Il teatro e il suo spazio, poi ripubblicato col titolo Lo spazio vuoto; Il punto in movimento; La porta aperta; Insieme a Grotowski. Nel 2001 sono stati tradotti i suoi Fili del tempo, memoriale che lui stesso definiva «biografia e autobiografia».
L’altro aspetto suo fondamentale è l’insegnamento ricevuto da Georges Gurdjeff, ai cui principi umanitari Brook si è sempre ispirato, entrando a far parte di quella compagine di pensiero e pratica altruistica. A lui, padre fondatore, ha dedicato attenzione e cura, e ha girato su di lui perfino un film, Incontri con uomini straordinari, che riprende fin dal titolo l’opera più famosa dello stesso Gurdjeff.