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Manovra, prove di mediazione senza via d’uscita

Manovra, prove di mediazione senza via d’uscita

Governo Conte: «Mi appellerò a Juncker». La preoccupazione del Colle

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 16 novembre 2018

«Con Juncker parlerò per invitarlo a non avviare la procedura d’infrazione, non per modulare la sua applicazione»: da Abu Dhabi Giuseppe Conte, dopo aver comunicato l’intenzione di chiamare il presidente della commissione Ue lunedì prossimo per fissare un colloquio, risponde così alle voci sulla sua intenzione di avviare una trattativa per ottenere una procedura d’infrazione per deficit eccessivo invece di quella, più temuta, per il debito. Subito dopo, però, il premier sottolinea che se «la manovra è quella e correzioni non sono per ora previste» il governo è comunque disponibile a fare «altre cose nell’interesse degli italiani».

Conte si appellerà alla commissione perché prenda sul serio lo spostamento di 5 miliardi sugli investimenti per i danni provocati dal maltempo e conceda su quel capitolo flessibilità portando il deficit al 2,2%, molto vicino a quanto la commissione era disposta ad accettare all’inizio. Quanto al debito, insisterà sulle dismissioni e sui 18 miliardi che dovrebbero portare in cassa, diminuendo così il debito di un punto tondo.

In circostanze diverse probabilmente la commissione avrebbe scelto la classica via di mezzo, procedendo con l’infrazione sul deficit ma sospendendo quella sul debito in attesa di vedere, anzi di contare, gli introiti delle dismissioni. Per come si sono messe le cose, un po’ per l’incombere della campagna elettorale, un po’ per la pressione degli Stati più rigidi come Olanda e Austria, un po’ anche per le intemperanze verbali dei governanti italiani, è molto poco probabile che quella strada venga imboccata oggi. Semplicemente perché, dopo la serie di rilanci degli ultimi mesi da entrambe le parti, una limitata sanzione per deficit verrebbe vista come una vittoria secca dei «disobbedienti» italiani.

Il capo dello Stato è consapevole di questa situazione. Ha sperato sino all’ultimo e invano che i due vicepremier cogliessero l’occasione della risposta alla lettera Ue per stemperare la tensione. Sergio Mattarella è preoccupatissimo per la situazione dello spread, salito ieri sino a 314 punti, e sbigottito per la scelta del governo di andare in deficit per regalare 7-8 miliardi agli speculatori con l’aumento del differenziale. Ma più di quanto ha fatto non può fare. Le ipotesi sulla possibilità che neghi la firma alla manovra per violazione degli articoli sul pareggio di bilancio sono solo sbrigliata fantasia: sarebbe un rimedio peggiore del male. Anche l’opzione alternativa di un intervento della Corte costituzionale, peraltro, suona altrettanto irrealistica e probabilmente il Colle stesso la sconsiglierebbe.

Dunque non resta che affidarsi alla speranza che un ragionamento politico lungimirante prevalga sul rigorismo e sui calcoli di propaganda da campagna elettorale. Nel suo discorso da Lund, ieri, il presidente ha sottolineato che «è dirimente un chiarimento sulla direzione di marcia che i popoli europei intendono percorrere» e ha ripetuto che l’Unione europea non può essere «una semplice unione doganale, una sorta di comitato d’affari». Sono tesi che Mattarella ha già più volte esposto ma che acquistano inevitabilmente un significato specifico nella situazione attuale.

Intanto il governo e la maggioranza si preparano a parare i colpi del conflitto in atto. Gli emendamenti leghisti al decreto fiscale dovrebbero servire proprio a limitare l’impatto dello spread sulle Banche di credito cooperativo e ieri, prima del vertice sul tema convocato per la serata, il presidente della commissione Finanze del Senato Bagnai ha annunciato che l’emendamento sulle Bcc, che nella versione attuale smonta la riforma Renzi, sarà riformulato «per coinvolgere il più possibile le opposizioni».

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