Mandato d’arresto per il voto nero in America
Stati Uniti La nuova legge elettorale della Georgia, dove persiste il mito trumpiano del "vote fraud", è l'emblema dell’assalto ai diritti partito negli Usa. I repubblicani reagiscono all’alta affluenza, che in alcuni stati è costata loro la sconfitta. Galera se disseti chi sta in coda, meno voto postale e pioggia di ulteriori restrizioni all'esame dei vari parlamenti statali
Stati Uniti La nuova legge elettorale della Georgia, dove persiste il mito trumpiano del "vote fraud", è l'emblema dell’assalto ai diritti partito negli Usa. I repubblicani reagiscono all’alta affluenza, che in alcuni stati è costata loro la sconfitta. Galera se disseti chi sta in coda, meno voto postale e pioggia di ulteriori restrizioni all'esame dei vari parlamenti statali
L’assalto è partito un giovedì di fine marzo in Georgia. Nell’ufficio del governatore repubblicano Brian Kemp c’erano lui stesso e sei deputati statali, tutti bianchi, sul muro un dipinto a olio della Piantagione Callaway (il candido colonnato, non gli schiavi piegati sul cotone), sul tavolo una penna e la nuova legge elettorale dello stato della Georgia. Fuori dall’ufficio una deputata nera, Park Cannon, che bussava con discrezione ma con insistenza per poter entrare.
LA DEPUTATA CANNON è stata arrestata. La nuova legge è stata firmata. Tra le sue norme ce n’è una che spiega tutto: sarà reato portare acqua agli elettori in coda – e le code elettorali in Georgia possono durare ore.
Lo storico record di 155 milioni di voti espressi alle ultime presidenziali non è una conquista democratica, è un dannato problema. Convincere i tuoi elettori? Meglio abbattere gli altri. È cominciata la battaglia per i diritti civili 2.0.
Il Brennan Center for Justice, un istituto della New York University, ha censito 250 leggi in 43 stati che limitano l’esercizio del voto. È una articolata aggressione del partito repubblicano, che a fine febbraio ha varato il “Comitato per l’integrità delle elezioni” e stanziato milioni per finanziare la difesa legale delle nuove leggi. Un’aggressione costruita sul mantra del vote fraud che l’ex presidente Donald Trump ha recitato prima durante e dopo le urne, fino all’invasione squadrista del Campidoglio. Nei tribunali la campagna è morta – e di morte violenta: tutti i ricorsi persi tranne uno – ma il suo mito vive pervicacemente nelle menti e nei cuori del Grand Old Party.
IL PARTITO DEMOCRATICO, da parte sua, all’inizio di marzo ha fatto approvare alla Camera la sua nuova legge elettorale, un agile testo di 791 pagine che pesa come l’elenco del telefono ed è quasi altrettanto interessante. È passata per 220 voti contro 200, ma si fermerà al Senato dove servirebbero 60 voti su 100 (e i democratici sono 50 più la vicepresidente Harris). Sancisce tra l’altro il primato delle norme federali rispetto a quelle statali più restrittive. E di restrizioni i fantasiosi lawmakers repubblicani ne hanno escogitate parecchie.
NON È UN CASO che sia stata la Georgia ad approvare la prima riforma-porcheria, che il presidente Joe Biden ha definito «atroce» e roba «da leggi Jim Crow», le norme segregazioniste spazzate via dal Voting Right Act del ’65.
È lo stato che ha votato i suoi due senatori per ultimo, a causa del ballottaggio, e al posto di due figuri repubblicani noti uno come speculatore finanziario e l’altra come miliardaria insediata d’ufficio, ha eletto due democratici e ha regalato il Senato americano al nuovo presidente Joe Biden. Ed è il segretario di stato della Georgia Raffensperger che Trump chiamò al telefono durante l’estenuante riconteggio, chiedendogli senza mezzi termini «trovami undicimila voti, Brad». Per i repubblicani della Georgia le ultime elezioni sono state una catastrofe, e sono corsi ai ripari.
La nuova legge della Georgia, come detto, rende un crimine portare acqua o cibo agli elettori in coda – crime e non felony: può costare galera. Le code alle ultime presidenziali sono state epiche, ma anche le file normali sono divise per colore: nei quartieri bianchi attesa media 6 minuti, in quelli neri 51, hanno cronometrato gli estensori della causa subito presentata contro la nuova legge.
LA DEPUTATA FEDERALE della Georgia Marjorie Taylor Greene, un personaggio noto per i tweet in cui approvava l’uccisione di Obama, ha commentato: «E allora? Stare in coda non è vote suppression, è parte del sistema, come dal salumiere». Per otto ore, come alle ultime presidenziali?
È stato tolto il ripugnante divieto di voto anticipato la domenica (quando le chiese nere cantano e poi imbottiscono bus interi di fedeli per il souls to polls, anime ai seggi), ma vengono molto inaspriti i controlli dei documenti per il voto postale, limitati ferocemente i seggi mobili, desertificati i drop boxes dove si depositano i voti postali e altre piacevolezze come il dimezzamento del periodo in cui è possibile votare. E Brad Raffensperger, che aveva rifiutato di rubacchiare i famosi 11mila voti, non è più il responsabile delle elezioni, sostituito da un consiglio, giudicato più permeabile alle indicazioni.
Nel resto degli Stati uniti i parlamenti statali sono pieni di proposte. In Wisconsin è previsto un solo ballot box per città – cioè uno per, diciamo, New Berlin che ha 40mila abitanti, e uno per Milwaukee che ne ha 600mila. In Iowa vengono quasi azzerati i tempi per allestire seggi in campus o centri commerciali. In Arizona è vietato spedire le schede per il voto postale se non richieste a ogni elezione, e una proposta prevede che il parlamento statale possa scegliere i grandi elettori a suo gusto e piacimento.
POI CI SONO LE CONTRADDIZIONI. In Nebraska i repubblicani vogliono entrare nel sistema “chi vince prende tutto” (hanno perso il bastione democratico di Omaha), in New Hampshire ne vogliono invece uscire (non vedono un deputato da cinque elezioni consecutive) e propongono il gerrymandering obbligatorio, ossia il ridisegno politicamente malizioso dei collegi elettorali, per assicurarsi almeno un deputato federale. In vari stati sarà vietato accettare donazioni per le strutture elettorali, sempre in bolletta e non per caso – come i 400 milioni donati dal boss di Facebook Mark Zuckerberg per mascherine guanti e disinfettanti. E via così, con la complicità della Corte suprema iper-repubblicana, che ha già commentato con favore alcune leggi anti-elettori e sembra pronta ad aggredire lo storico Voting Rights Act.
L’ASSALTO AL VOTO È IN ATTO, e l’immagine perfetta è la cugina di Martin Luther King, la signora Christine Jordan, che dopo l’estenuante coda al seggio in centro ad Atlanta (che a 94 anni è un gesto atletico) venne cacciata perché risultava “trasferita”. Votava là da quando l’illustre parente aveva guidato il movimento dei diritti civili e ottenuto il voto ai neroamericani, il Nobel per la pace e una fucilata in testa. Votava in base alla famosa legge presentata da John F. Kennedy nel giugno del 1963 – a novembre, a Dallas, altra fucilata in testa.
E ora si ricomincia.
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