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Mandati d’arresto, in gioco il futuro del diritto internazionale

Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, durante l’annuncio di ieriIl procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, durante l’annuncio di ieri

Striscia continua Sono trascorsi cinque mesi da quando il procuratore Karim Khan ha presentato le richieste o nei confronti di leader politici e militari di Hamas, del premier israeliano Netanyahu e del ministro della Difesa Gallant.

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 ottobre 2024

Sono trascorsi cinque mesi da quando il procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan ha presentato richieste di mandato di arresto nei confronti di leader politici e militari di Hamas, del premier israeliano Netanyahu e del ministro della Difesa Gallant.

Ai due leader israeliani la procura imputa la presunta commissione di crimini di guerra tra cui l’uso deliberato della fame come metodo di guerra e il ricorso ad attacchi intenzionali contro la popolazione civile di Gaza, e crimini contro l’umanità tra cui sterminio e persecuzione. Una decisione dalla valenza storica: dopo 15 anni dalla prima volta in cui lo Stato di Palestina ha accettato la giurisdizione della Corte, assistiamo a un passo concreto dinanzi alla Cpi e al tentativo di porre fine alle impunità di cui i leader politici e militari israeliani godono da sempre.
Non mancano profili problematici delle indagini del procuratore. In primo luogo, il notevole ritardo con cui queste richieste sono arrivate: il 20 maggio 2024 a Gaza erano già state uccise 35.700 persone, oltre due milioni di palestinesi erano stati sfollati e una lunga lista di crimini di guerra e contro l’umanità erano già stati commessi. In secondo luogo, il raggio d’azione delle indagini non copre (per ora) crimini internazionali ampiamente documentati, come il trasferimento forzato di circa due milioni di persone in un contesto in cui non vi è alcun posto sicuro, i crimini commessi contro i detenuti palestinesi e potenziali atti di genocidio, sulla cui plausibilità si è già espressa per ben tre volte la Corte internazionale di giustizia. Allo stesso tempo sono esclusi i crimini commessi dalle autorità israeliane nei Territori palestinesi occupati prima del 7 ottobre 2023, una mancanza che da una parte sembra legittimare la narrazione secondo cui tutto è cominciato solo un anno fa e dall’altra ignora crimini già oggetto di indagine, tra cui il crimine di trasferimento di coloni israeliani nei Territori.

A cinque mesi dalle richieste della procura, la Camera preliminare della Cpi che si deve pronunciare sull’emanazione dei mandati di arresto non ha ancora agito. Il ritardo è imputabile alle pressioni di alcuni stati, in primis la Gran Bretagna, che, senza averne alcun titolo, hanno interferito con il procedimento: la Camera preliminare ha accettato una richiesta di memoria da parte delle autorità britanniche secondo cui la Corte, alla luce degli accordi di Oslo, non avrebbe giurisdizione sui cittadini israeliani. Seppur, successivamente al cambio di governo, la Gran Bretagna abbia ritirato tale richiesta, la Camera ha consentito ad altri stati, organizzazioni ed esperti di presentare memorie simili. Tra questi, gli Stati uniti (che non sono membri della Corte) e la Germania che puntualmente si oppone all’intervento della Cpi nel contesto israelo-palestinese. L’Italia non è intervenuta nel procedimento ma ha fortemente criticato le richieste di mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant. Il ministro degli esteri Tajani ha accusato Khan di paragonare Hamas, considerata organizzazione terroristica, a leader democraticamente eletti. Si tratta di una presa di posizione giuridicamente errata. Al governo italiano va ricordato non solo che la Corte giudica gli individui e non gli stati, ma anche che – per fortuna – essere stati eletti non è un lasciapassare alla commissione di crimini.

Se la stessa Corte in altri contesti è stata molto celere nell’emettere mandati di arresto (come nel caso del presidente russo per crimini di guerra commessi in Ucraina), l’attuale ritardo è assai discutibile, soprattutto se si tiene conto del rischio di genocidio a Gaza. Dal 20 maggio ad oggi a Gaza sono state uccise circa 7mila persone. Resta di difficile comprensione la decisione della Camera di consentire agli stati di intervenire in un procedimento giudiziario. L’accettazione di tale interferenza va inserita nel più ampio contesto delle indagini della Corte nei confronti di cittadini israeliani, già oggetto di gravi pressioni e minacce sia da parte di Israele che degli Stati Uniti. Qualche mese fa un’inchiesta del Guardian ha svelato come l’ex direttore del Mossad avesse in più occasioni minacciato la precedente procuratrice capo della Cpi Fatou Bensouda che è stata la prima ad aprire ufficialmente le indagini nel caso Palestina.

Ora la Corte si trova si trova a un bivio. Agire in linea con il proprio mandato, tenendo fede solo allo Statuto di Roma, dunque valutare le richieste di Khan sulla base delle prove documentali presentate ed emettere i mandati di arresto; o arrendersi alle pressioni e alle minacce. Questa seconda strada comporterebbe il definitivo diniego di qualsiasi possibilità di giustizia per le vittime palestinesi, per le quali la Corte rappresenta l’unico strumento a disposizione. Offuscherebbe ulteriormente l’immagine della Corte come istituzione indipendente e imparziale, oltre a confermare le ragioni alla base della crescente disillusione nei confronti del progetto di giustizia penale internazionale tra i paesi del Sud del mondo. E contribuirebbe ad assestare il colpo definitivo alla legittimità e alla credibilità di un’istituzione già minata dai mancati processi per presunti crimini internazionali commessi dalle truppe britanniche in Iraq e da statunitensi in Afghanistan.
Se, alla luce del genocidio in corso a Gaza, i giudici decidessero di non intervenire fornirebbero l’ulteriore dimostrazione della permanenza di una giustizia asimmetrica, che discrimina sia le vittime che i responsabili di crimini internazionali sulla base della loro nazionalità.

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