«Vorrei sapere se ora che sono arrivati i soldati ucraini si sente sollevata», insiste un giornalista americano rivolto al suo fixer. L’intervistata è una signora di circa settant’anni che attraversava il centro di Lyman in bicicletta. È il primo giorno in cui il paese è aperto ai giornalisti e i civili sono ancora ben disposti a parlare. «Dice che è contenta che adesso non ci saranno più i bombardamenti» traduce l’interprete. «Questo mi fa molto piacere, ma puoi chiederle in modo diretto se è contenta che siano tornati i militari ucraini?».

L’interprete, un po’ imbarazzato per quella domanda che a lui sembra scontata, traduce. La signora sorride amabilmente, non muta atteggiamento e risponde «spero che presto arriverà la pace per tutta l’Ucraina». L’interprete si imbarazza di nuovo, evidentemente non è andata come credeva.

INTORNO CI SONO SOLO MILITARI, poliziotti e giornalisti. E centinaia di mine, un capitano si sgola per richiamare i giornalisti che si avvicinano ai prati o escono dall’asfalto. «Lì si fa booom, camminate sulla strada!» spiega con ampi gesti delle braccia. La paura delle mine è reale, non si tratta di paranoia, all’angolo di una strada gli sminatori ne hanno raccolte decine. Ogni tanto qualche anziano passa in bicicletta da una parte all’altra del palazzo su cui ora sventola la bandiera gialla e blu. Nessuno si sposta a piedi e il rumore metallico degli ingranaggi si somma a quello delle lamiere penzolanti delle case distrutte.

Dovunque si guardi i palazzi sono un cumulo di macerie. Anche nell’edificio che ora usa la polizia militare mancano alcuni muri e sono stati sistemati dei grossi teli opachi al posto dei vetri delle finestre.

RICONOSCO UN ANZIANO di nome Vassily che attraversa la piazza faticando sui pedali. Gli chiedo se si ricorda, ci eravamo visti a maggio, poco prima che Lyman cadesse. Lui sorride come un nonno e dice «che vuoi farci, non c’è acqua, non c’è luce, non c’è gas, si mangia quando portano gli aiuti… non è facile pensare a tutto». Non può fermarsi tanto perché deve andare da un conoscente, gli serve un pezzo di non si capisce cosa. «Ma i russi…» non faccio in tempo a formulare la domanda che Vassily ricomincia a pedalare mentre dice «i russi se ne sono andati».

UN’ALTRA DONNA RACCONTA che i militari russi «entravano nelle case abbandonate e prendevano tutto; quando trovavano la porta chiusa la sfondavano. Una volta sono andati a casa di mio figlio e stavano per sfondare la porta ma sua moglie gli ha aperto e gli ha detto “entrate prego, prendete ciò che volete”, loro però non hanno avuto il coraggio di rubare davanti a lei e alla fine se ne sono andati».

Quando l’addetta stampa urla per richiamare la nostra attenzione a causa di «comunicazioni importanti», ci avviciniamo a un palazzo semi-distrutto e riconosco Igor, il capo della polizia locale. A maggio ci aveva descritto una situazione al limite del sopportabile di fronte ai civili che si mettevano in fila per gli aiuti umanitari.

E, INFATTI, POCO DOPO LYMAN è caduta. Quando gli dico che non mi aspettavo di trovarlo lì la prende male. «Intendo qui in città, hai combattuto per tutto questo tempo?». Rassicurato sul fatto che non si parlava della sua dipartita racconta che è stato dislocato a Kramatorsk, insieme ad altri del suo dipartimento, in funzione di supporto. Poi, dopo che i militari hanno liberato il campo, sono tornati qui. «Al momento il problema più grave è sicuramente la logistica, far arrivare ciò di cui c’è bisogno; le strade sono minate, i ponti crollati, è difficile aiutare questa gente». Spiega che al momento nel paese ci dovrebbero essere circa 1600 civili. «E come li avete trovati, stavano bene con i russi?». Igor risponde serio «questa gente ha subito una pesante occupazione, stiamo iniziando a raccogliere anche qui le prime prove di violenza da parte degli occupanti, non come a Izyum, però…». «Ma vi state attrezzando per difendervi contro il ritorno dei russi, Putin dice che torneranno molto presto». «Putin dice solo cavolate. Hanno fatto un referendum, ora questa dovrebbe essere terra russa, ti sembra che siamo in Russia qui?».

Un boato risuona in lontananza. No, in effetti non siamo in Russia, lì la guerra non c’è.