Più di un commentatore aveva sentito puzza di antisemitismo alla notizia dell’interruzione della collaborazione con Israele su ricerche di tipo duale, civile e militare, decisa per ora solo all’università di Torino.

«Boicottiamo Israele – si dice – ma collaboriamo con Paesi come Iran, Arabia Saudita, Qatar?». Studenti e ricercatori in mobilitazione fanno bene a rimandare al mittente questa accusa di pacifismo a senso unico: una delle rivendicazioni del movimento è l’uscita delle università dalla fondazione Med-Or, il braccio politico della holding delle armi Leonardo che promuove la cooperazione scientifica «dual use» con Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Algeria (oltre che con Israele).

La decisione di ieri del Cnr, il principale ente di ricerca italiano, che blocca la ricerca duale con tutti i partner internazionali, rafforza senza dubbio questa posizione.

Però non sbaglia chi si è stupito per i numerosi rapporti tra le università italiane e i governi che violano i diritti umani. Non sempre, va detto, si tratta di aperta complicità con stati canaglia.

Innanzitutto, molte collaborazioni scientifiche puntano a migliorare le condizioni di vita della popolazione e non portano alcun vantaggio ai regimi. In ogni caso, non sempre è facile per gli stessi scienziati stabilire dove finisce l’universalismo della comunità scientifica e dove inizia la complicità con un regime.

La ricerca «dual use» contiene ampie zone grigie in cui ci si può persino infilare in buona fede. È opportuna la proposta dei ricercatori del Cnr, emersa grazie al dibattito in corso, di contrassegnare con un bollino le ricerche a potenziale uso militare per agevolare la consapevolezza e la trasparenza delle scelte dei ricercatori.

Lo si fa già con quelle eticamente sensibili che implicano la sperimentazione animale o l’uso dell’intelligenza artificiale. Ma difficilmente il bollino esaurirà il dibattito.

In secondo luogo, la cooperazione nel campo «dual use» non ha sempre avuto obiettivi guerrafondai. Dopo Hiroshima e Nagasaki, il «distruttore di mondi» Robert Oppenheimer pensava che collaborare con l’Urss nel campo degli armamenti atomici fosse il miglior antidoto contro l’Apocalisse.

La cosiddetta diplomazia scientifica passa anche dal dialogo tra diversi. Chi dunque supporta la cooperazione con Israele, o persino con una plateale dittatura, non è necessariamente favorevole a un genocidio.

La terza ragione, probabilmente la più rilevante, non ha nulla a che fare con la geopolitica. La ricerca scientifica ha bisogno di soldi e gli scienziati si sono da tempo adattati a cercarli dove si trovano. Non solo in Israele, che investe in scienza e tecnologia il triplo di noi: tanti professori universitari oggi accettano cattedre ben pagate alla corte degli sceicchi proprio come le glorie del calcio a fine carriera.

La comunità scientifica ha fatto proprie le regole del mercato, con i brevetti e le citazioni scientifiche al posto delle merci e della moneta. Ma del mercato ha anche assorbito il cinismo secondo cui chi vince – cioè pubblica e ottiene finanziamenti – ha sempre ragione, poco importa da dove arrivino i soldi e per fare cosa.

Il «controllo sociale sulla scienza», un tema di moda negli anni ‘70 almeno sul piano della rivendicazione, è ormai un lontanissimo ricordo, la «non neutralità della scienza» quasi una parolaccia. Così gli scienziati hanno imparato a muoversi indisturbati tra zone grigie e zone d’ombra e vengono richiamati alla realtà solo nei rari momenti in cui l’opinione pubblica accende la luce per vederci chiaro.