Quello che si disputerà questa sera nell’affascinante cornice di Mondofitness in Viale Tor di Quinto non è solo un match di pugilato, di per sé già carico di adrenalina e aspettative visto che in palio c’è la cintura italiana dei pesi superwelter. La sfida tra il campione in carica Emanuele Della Rosa (35 vittorie, 2 sconfitte) e lo sfidante pugliese Felice Moncelli (12-3-1) potrebbe essere uno spartiacque; o almeno questo pensa l’entourage del pugile romano. «Da questo match mi aspetto una vittoria chiara, netta. Se ciò non dovesse accadere dovremmo farci delle domande e capire cosa riserva il futuro a un pugile come Emanuele che ha quasi 40 incontri e 35 anni», ci dice Valerio Monti, da un anno maestro di Della Rosa dopo che le loro strade si erano già incrociate a partire dal 2009 quando faceva il “secondo” a Eugenio Agnuzzi, al tempo allenatore di Della Rosa. Parole crude dalle quali non trapela però nessuna paura, ma anzi la convinzione che un pugile del calibro di «Ruspa», come è soprannominato Della Rosa, che ha già combattuto per il titolo mondiale (2009) e quello europeo (2014), deve ancora avere l’obiettivo di incrociare i guantoni oltre i confini di casa.
Oggi a 35 anni difendi il titolo italiano. Se ti guardi alle spalle, te lo ricordi quel ragazzo che, con le mani sporche di farina, ha bussato alla palestra di Luciano Sordini a Fiumicino?
Me lo ricordo bene. A 14 anni, dopo la morte di mio padre, io e mio fratello ci siamo messi a lavorare per aiutare la famiglia a tirare avanti. Ho lasciato la scuola perché tutto sommato non ero poi così portato per lo studio; e ho iniziato a lavorare in un forno ad Acilia. Non era la vita migliore che si potesse immaginare per un adolescente. Attaccavo prima di mezzanotte, facevo turni da 13 ore, me ne andavo a casa a pranzo del giorno dopo. Tutti i santi giorni. Il venerdì, giorno di pane doppio, attaccavo alle 7 di sera. Lavoravo e dormivo, dormivo e lavoravo. Iniziai a pensare che meritavo qualcosa, che meritassi di regalarmi una gioia e una soddisfazione tutta per me, fosse anche solo un momento di svago e di scarico. A 17 anni ho messo piede per la prima volta in una palestra di pugilato, in un corso amatoriale. Conoscevo Luciano Sordini, sapevo chi era e la fama che lo precedeva. È bastato poco per innamorarmi di questo sport e decidere di combattere».
Quali sono le tappe principali di questa tua lunga carriera? Cosa annoveri, nel bene e nel male, come momento decisivo della tua crescita da professionista?
Se Emanuele dovesse descrivere «Ruspa» Della Rosa quali tratti metterebbe in evidenza? Quali pregi e quali elementi caratterizzanti?
Della Rosa è un ragazzo che ha fatto sacrifici, è un persona che ha sempre stretto i denti: direi che la tenacia, sotto questo punto di vista, è la linea di continuità che unisce la mia vita dentro e fuori dal ring. Mi capita spesso di dire che sono proprio i sacrifici ad essere la chiave che apre la strada dei successi e delle soddisfazioni. E per questo aggiungo l’umiltà al fianco della tenacia.
A proposito di tenacia, è perché sul ring non molli un attimo che ti chiamano «Ruspa»?
Veramente il soprannome me lo diedero quando a 7 anni giocavo a calcio! Fu il mio primo allenatore, Roberto Polci, a coniarlo perché non mollavo mai neanche con la maglia del Fiumicino Calcio.
Veniamo al match con Moncelli: pensieri, aspirazioni, significati… Raccontaci cosa vuol dire per te, oltre la difesa del titolo.
È un match che mi dirà se ho ancora voglia di andare avanti, se sono stanco, se questa lunga carriera può ancora sposarsi con una vita sempre al limite. Da 3 anni ho cambiato i miei orari di lavoro, ma la sveglia suona comunque prima delle 5 e a casa c’è mio figlio che a breve avrà anche una sorellina. Ci sono sacrifici e responsabilità diverse, è tutto più duro; non a causa della famiglia, sia chiaro, anzi mi aiutano molto e mi danno la forza – ma per gli impegni e i carichi di lavoro che devono collimare con la testa e con l’età. Molti mi chiedono il perché di questo match: se vinco non guadagno nulla di rilevante, se perdo è finito Della Rosa. In parte è vero, ma io ho bisogno di una sfida del genere, difficile, per guardarmi allo specchio e leggere le prossime pagine della mia carriera.
Cosa pensi della palestra Revolution, dove ti alleni, nel cuore di Piscine di Torre Spaccata e del suo progetto di riqualificazione territoriale?

Mah, io sono una persona umile, sto bene tra la gente dei quartieri popolari. È lo specchio di quello che è sempre stata la mia vita. È stato il maestro Monti a scegliere questo spazio, sposando l’idea di un progetto sportivo popolare, che partisse dal basso. Io ho fiducia in lui e in questo progetto, è a lui soltanto che devo la possibilità di misurarmi in una dimensione del genere. Se domani decidesse di allenare dentro un bagno o uno sgabuzzino, lo seguirei senza esitazioni. In più sono amico di Lorenzo Catalano, un persona squisita e un ottimo allenatore: tutto lo staff mi ha fatto sentire da subito a casa mia e vorrei ripagarli continuando ad essere campione insieme a loro, vincendo questo match e puntando al titolo europeo contro Roberto Santos.