L’Umbria come l’Ungheria di Orbán. «Le donne che chiedono l’interruzione della gravidanza vengono costrette ad ascoltare il battito del cuore del feto», così sostengono Elisabetta Piccolotti e Eleonora Evi dell’Alleanza Verdi Sinistra. L’invito è per il ministero della Sanità, che dovrebbe verificare quella che appare come una pressione psicologica piuttosto inquietante, messa lì solo per cercare di scatenare sensi di colpa. Roberto Speranza, dal canto suo, ha detto di non avere «conoscenza diretta» del caso ma che valuterà un’eventuale ispezione.

La Legge 194 è da sempre un pallino della destra: dove amministra il diritto all’aborto viene ostacolato in ogni modo. L’aveva fatto presente per ultima Chiara Ferragni prendendo ad esempio le Marche, ma, a onor del vero, i gruppi femministi denunciano la cosa da anni, sfornando analisi e dossier sul numero degli obiettori di coscienza tra i ginecologi o evidenziando situazioni ai limiti della sostenibilità in giro per l’Italia, tra consultori che rifiutano di somministrare i trattamenti e percorsi a ostacoli a cui una donna deve sottoporsi per far valere un proprio diritto. In tutto questo, Giorgia Meloni ha parlato del diritto delle donne «a non abortire», un notevole controsenso logico, dal momento che se si vuole portare avanti una gravidanza non risulta che questo in Italia venga impedito.

Nella lotta al diritto all’aborto l’Umbria è all’avanguardia, «un laboratorio politico» come l’hanno definito i consiglieri regionali del Pd Fabio Paparelli e Simona Meloni. L’elenco di misfatti da quando si è insediata la giunta di destra guidata dalla leghista Donatella Tesei è lunga: dal divieto di somministrare la pillola abortiva in day hospital (con conseguente obbligo di ricovero per tre giorni) al fatto che negli ospedali più grandi l’interruzione di gravidanza è un servizio a disposizione solo una volta alla settimana, passando per iniziative cosiddette culturali che in realtà sono esibizioni del più oscuro e grottesco freak show di associazioni «pro life» in odore di fanatismo religioso.

Sulla questione, Meloni gioca la sua partita sul filo dell’ambiguità: le rassicurazioni sul fatto che la 194 non verrà toccata stridono con quelle sulla necessità di «offrire alle donne la possibilità di fare una scelta diversa» dall’aborto. Un modo per strizzare l’occhio agli estremisti della sacralità della vita sin dal concepimento, ma anche l’indizio del tentativo di rimettere in discussione un diritto acquisito. Il capogruppo marchigiano di Fratelli d’Italia, lo psichiatra Carlo Ciccioli, un anno fa ebbe a dire che la legge sull’interruzione di gravidanza frena la crescita demografica italiana e apre alla «sostituzione etnica». La sua visione del mondo, del resto, la dichiarò in consiglio regionale quando descrisse la «famiglia naturale» come un’unione con «la mamma che accudisce e il papà che detta le regole» (e gli rispose Meloni in persona: «A casa mia le regole le faccio io»).

Ancora nelle Marche l’assessora leghista Giorgia Latini (candidata alla Camera con ottime possibilità di essere eletta) ha poi mostrato nei mesi scorsi la traduzione in atti amministrativi della doppiezza meloniana sull’argomento, con lo stanziamento di fondi «per la vita», soldi alle donne che decidono di non abortire, nel nome del «sostegno alla natalità» e della «piena attuazione della Legge 194». Il diritto, se non si può abbattere, si può sempre comprare.