Se gli si chiede quanto ci sia di autobiografico in Battere i pugni sul mondo, il romanzo che lo ha rivelato come una delle voci più significative della nuova letteratura tedesca e che in Italia è proposto da Keller (pp. 316, euro 18, 50, traduzione di Scilla Forti), risponde, schivo, «molto e niente allo stesso tempo». Eppure Lukas Rietzschel, nato nel 1994 nei dintorni di Bautzen e che ora vive a Görlitz, due località della Sassonia dove l’estrema destra è di casa, è un coetaneo dei fratelli Philipp e Tobi, dei quali nel suo intenso esordio narrativo racconta l’incerta educazione sentimentale tra i fantasmi della Ddr e il sinistro fascino esercitato dalla sottocultura neonazista. Tra il 2000 e il 2015 i due giovani protagonisti, che crescono sotto i nostri occhi pagina dopo pagina creando in qualche modo da sé ogni sorta di punto di riferimento esistenziale, ci guidano alla scoperta di un mondo, dei suoi codici e delle sue tante incertezze. Anche grazie ad una lingua diretta che scava nelle inquietudini dei personaggi, il romanzo finisce così per rendere fino in fondo il senso di spaesamento che sembra dominare questa parte della Germania. Rietzschel presenterà il libro domani a Milano nell’ambito di Book Pride – alle 13,30 in Sala Ottawa con Fabio Deotto.

Fabbriche chiuse, lavori mal retribuiti, incertezza: lo scenario in cui si muovono i personaggi evoca l’idea di una fine, di un abbandono, della difficoltà di coltivare nuovi sogni. Raccontate una storia di sopravvissuti?
Il romanzo tratta della fine delle illusioni. Molti ex cittadini della Ddr desideravano fortemente accedere alla libertà individuale, ad un miglioramento generale delle loro condizioni di vita, agli status symbol. Ma, volendo riassumere in modo spiccio come sono andate le cose, (dopo la caduta del Muro, ndr) sono diventati vittime di una logica neoliberale di mercato che prima avevano percepito solo come una sorta di decalcomania feticizzata e non nel suo reale potere rivoluzionario e incapacitante.

Se questo è lo scenario generale, ci sono poi i giovani protagonisti della storia: che cosa alimenta la rabbia che sembra nutrire Tobi e Philipp, che conosceranno peraltro approdi diversi?
Sono cresciuto sentendomi come se nessuno mi stesse aspettando. Il mio consulente scolastico al liceo mi ha suggerito di lasciare la regione. Mi ha detto: «Qui per te non c’è niente». La gente se n’è andata, le occasioni si sono ridotte al minimo. Non sentivo che ci fosse un futuro da queste parti. È questa sensazione che ho provato in prima persona che ho cercato di descrivere nel romanzo. Quanto alla rabbia, in particolare Tobi sembra credere di poter attirare l’attenzione su di sé solo attraverso l’aggressività e l’odio. Nel suo mondo, dietro il profilo distruttivo questa appare come una forza produttiva.

Philipp, il fratello maggiore, spiega ad un amico che il gruppo di ragazzi razzisti e violenti ai quali è legato non sono «nazisti». Come nasce la sottocultura di estrema destra così diffusa in ragioni come la Sassonia?
Lui sostiene che non c’è niente di sbagliato nell’orgoglio per le proprie origini. Anche altrove, dice, si è orgogliosi del proprio Paese. Ignora però completamente il fatto che dietro tutto ciò ci sia il disprezzo nei confronti degli altri. Allo stesso tempo vede in questo «orgoglio» una sorta di possibilità di guarigione per tutte le figure tristi e piegate che lo circondano. In merito, la retorica della destra segue dei cliché universali: dice che le forze esterne, i divieti, le élite opprimono la loro stessa gente. E che appare perciò legittimo liberarsene con la forza delle armi.

Parlando degli atti di razzismo nella ex Ddr si mette spesso l’accento sull’esistenza di un circuito estremista giovanile, nel romanzo però molti dei genitori condividere l’avversione verso gli stranieri dei loro figli. Come stanno le cose?
Credo che parlare di un mix tra questi elementi sia corretto. Da un lato, i gruppi di destra nei primi anni ’90 offrivano un senso di appartenenza, una visione del mondo, una comunità. Philipp cerca soprattutto un gruppo a cui appartenere. In seguito gli diventa chiaro che non ne condivide però la visione ideologica. Tobi è diverso. Dall’altro, ci sono i genitori. I lavoratori a contratto cubani, siriani o vietnamiti, che lavoravano nelle fabbriche della Ddr vivevano separati dal resto della popolazione, nelle periferie. Non c’erano scambi con «gli stranieri», nessuna cultura dell’accoglienza, nessuna integrazione. Ciò ha permesso al pregiudizio di prosperare. Molti genitori sono rimasti a guardare e hanno applaudito quando sono stati bruciati i centri per rifugiati di Hoyerswerda e Rostock (rispettivamente nel ’91 e nel ’92, ndr). Hanno pensato: finalmente qualcuno fa qualcosa.

Sono passati oltre 30 anni dalla «Wende» (la svolta) che ha segnato la fine della Ddr e l’inizio della riunificazione tedesca. Il romanzo si svolge tra il 2000 e il 2015, oggi descrivereste la situazione negli stessi termini?
I traumi non sono stati ancora elaborati. Buona parte del romanzo ha a che fare con la comunicazione tra le generazioni, che non funziona perché il passato si «mette in mezzo». E questo accade ancora. Le bande di giovani predatori, invece, non esistono più in quella forma. Lo Stato è diventato più consapevole del problema e anche la società civile sta assumendo una posizione più chiara. Le strutture di destra si sono espanse e istituzionalizzate in modo diverso. Ora ci sono «coloni» di destra, partiti di destra, festival musicali di destra, fondazioni di destra. Non mirano più a un rovesciamento violento della situazione, ma a un lento cambiamento. Anche se il loro obiettivo resta lo stesso.