Cultura

Luis Gusmán, una irreparabile e vertiginosa assenza

Luis Gusmán, una irreparabile e vertiginosa assenza

GEOGRAFIE «Neanche da morto il tuo nome perdesti», dello scrittore argentino. Edito da Arcoiris, che pubblica anche i suoi libri precedenti, un romanzo breve dalle vite intrecciate. Nel 1973 pubblica il suo esordio, «El frasquito». E fonda insieme ad altri la rivista «Literal» secondo cui «la letteratura è possibile perché la realtà è impossibile». I crimini di due carnefici «a riposo» si scontrano con le vicende di Federico, figlio di desaparecidos che va in cerca della propria storia, aiutato da una sopravvissuta

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 14 dicembre 2023

Nella tempestosa storia dell’Argentina, il 1973 fu un anno tutt’altro che tranquillo: il ritorno in patria di Perón e la sua elezione alla Presidenza aprirono la stagione del Terzo Peronismo, breve quanto drammatica, perché meno di un anno dopo la morte dell’anziano leader avrebbe lasciato il governo nelle mani della vedova Isabelita (un capo di Stato improbabile quanto e più di Javier Milei) e del ministro José López Rega, ex poliziotto piduista e fondatore della Triple A, l’Alianza Anticomunista Argentina che proprio nel ’73 commise il suo primo grave attentato e fu responsabile del massacro dei peronisti di sinistra all’aeroporto di Ezeiza.

CINQUANT’ANNI DOPO, nei giorni in cui l’ultima versione del peronismo deve affrontare la sconfitta, a questi lugubri anniversari se ne può accostare un altro squisitamente letterario, che testimonia l’eccezionale qualità e vitalità della cultura di un paese tormentato: la contemporanea apparizione, nel novembre del 1973, della rivista Literal e del romanzo El frasquito, opera prima di uno dei suoi fondatori, l’allora ventinovenne Luis Gusmán.
«La letteratura è possibile perché la realtà è impossibile»: così si apriva il primo numero di Literal, che attaccava con l’insolenza tipica dell’avanguardia il populismo e il realismo dominanti, proponendo «non una letteratura politica, ma una politica della letteratura» e coniugandola con il post-strutturalismo e la psicoanalisi lacaniana. I pochi numeri pubblicati bastarono a sancire l’influenza della rivista e a far nascere intorno a essa una durevole leggenda, e tuttavia Literal, che era felicemente riuscita a insinuarsi nell’esiguo spazio di libertà tra la fine di una dittatura e l’inizio di un’altra, non poté sopravvivere al colpo di stato militare del ’76, mentre due dei suoi «padri», Osvaldo Lamborghini e Germán García (non più scrittore ma psicoanalista, sulle orme del suo maestro Oscar Masotta) si videro costretti a espatriare.

Il primo dei sette romanzi scritti da García, Nanina, nel 1968 era stato proibito dal governo del generale Onganía perché «immorale», e la stessa sorte sarebbe toccata all’audace El frasquito, rapidamente espulso dalle librerie e oggi considerato un classico del Novecento. In Argentina se ne celebra il cinquantenario con un’edizione commemorativa della Editorial Edhasa, purtroppo priva del prologo scritto nel 1973 dal giovane Ricardo Piglia, che però i lettori italiani troveranno accluso alla prima, tardiva ma eccellente traduzione italiana (Il gemello, Arcoiris 2021) a opera di Loris Tassi, che l’ha inserita nella collana «Gli Eccentrici» da lui diretta, miniera di testi latinoamericani rari e insoliti in cui figura anche il gusmaniano Tennessee (2022), imperniato su un malinconico antieroe, l’ex sollevatore di pesi Walenski.

AL CATALOGO DI ARCOIRIS si aggiunge ora un’altra opera dell’autore, il folgorante Neanche da morto il tuo nome perdesti (Arcoiris, pp. 178, euro 13, la traduzione è ancora di Tassi), romanzo breve in cui Gusmán intreccia le vite e i crimini di due carnefici «a riposo» (soprannominati ironicamente Varela e Varelita, come i componenti di un duo canoro degli anni ’50), alle vicende di Federico, figlio di desaparecidos che va in cerca della propria storia, aiutato da una sopravvissuta («Una specie di Cenerentola macabra che ha finito per perdere più di una scarpetta»), cui è stato fatto credere di aver tradito i propri compagni.
Un tema, quello dei desaparecidos e della loro irreparabile assenza, che a quarant’anni dal ritorno alla democrazia continua ad affiorare nella letteratura di un paese trasformato dalla dittatura in un’immensa scena del crimine, e che Gusmán inserisce in uno stilizzato hard boiled porteño, concluso da una sorta di riapparizione (Federico, scoperto il luogo di sepoltura dei genitori, scrive i loro nomi sulle pietre che ne nascondono i corpi, rivendicandone così la presenza) ma anche di riparazione, perché il passato cui Varelita è riuscito lungamente a sfuggire, finalmente lo raggiunge.

ACCOSTATO a Il gemello e a Tennessee, il romanzo contribuisce a illustrare la sorprendente evoluzione dell’autore, maturata in cinquant’anni di intensa attività letteraria: il Gusmán degli esordi, infatti, appare refrattario alle categorie di tempo e spazio, incline alle enumerazioni caotiche, all’allucinazione onirica, all’allegoria e all’uso reiterato del frammento, che sfidano il lettore a frugare sotto l’oscura superficie di un «ermetismo programmatico» (la definizione è di Juan José Saer) per catturare il senso del testo. Trascorsa una decina d’anni, però, l’autore compie una brusca virata verso l’estetica del realismo, con trame nitide e rigorose che sfiorano il poliziesco e il noir, distorcendo sottilmente le norme dei generi e ricorrendo a una scrittura scarna e quasi glaciale.

ED È SIGNIFICATIVO che il momento in cui il secondo Gusman si separa dal primo sia quello del ritorno alla democrazia, quando la necessità di raccontare sembra spingerlo a gettar via la maschera giovanile dell’avanguardia, legata alle polemiche pagine di Literal, e a lasciarsi «travolgere dalle storie», come ha confessato in un’intervista, creando un universo proprio, popolato da personaggi ricorrenti, segnato dalla disillusione, radicato nelle sterminate periferie di Buenos Aires, ma soprattutto connotato dalla scelta di rileggere la memoria e darle nuovo senso alla luce del presente, separandola da intenzioni puramente testimoniali o celebrative e rifiutandosi di ridurla a un guscio vuoto: un esercizio che, oggi, pochi sembrano voler praticare, in Argentina come altrove.

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SCHEDA. APPELLO DI SCRITTRICI E SCRITTORI
La dura lettera contro Javier Milei di milleduecento intellettuali

Raúl Alfonsín, eletto dopo la fine della peggior dittatura militare tra le tante che hanno governato l’Argentina, divenne presidente della Repubblica il 10 dicembre del 1983, ed è nello stesso giorno e mese, esattamente quarant’anni dopo, che Javier Milei è assurto a questa carica. Poco prima che questo accadesse, nei giorni precedenti al ballottaggio, milleduecento esponenti della cultura argentina, compresi alcuni dei migliori nomi di una letteratura straordinaria (tra gli altri, Samanta Schweblin, Martín Caparrós, Guillermo Saccomanno, Andrés Neuman e Gabriela Cabezon Camara), hanno fatto sentire la loro voce.
Nella durissima lettera aperta diffusa dal sito Medium e ripresa da tutti i giornali, non hanno trascurato di criticare il discutibile Massa e di affermare che nessuno dei candidati ha un programma «rispondente agli interessi popolari», ma hanno anche sottolineato che esiste comunque una «differenza cruciale» tra il justicialista Massa e il suo avversario, nel cui folle estremismo di destra sembrano riflettersi ombre del passato (evocate soprattutto dalla vicepresidente Victoria Villaruel, negazionista intenzionata a «disarticolare le politiche dei diritti umani»), tanto che, per la prima volta, dopo il ritorno alla democrazia, «è un pericolo reale, non astratto, la possibilità che dal potere statale si dia impulso a una repressione incontrollata e illegale».
Pochi giorni questo appello, però, Milei ha trionfato. E adesso, ha scritto Caparrós su El País, nel giorno dell’insediamento presidenziale, non rimane che stare a vedere «se per imporre la quarta incarnazione neoliberista dopo Videla, Menem e Macri, un tizio ha preso in giro milioni di persone con la fiaba della motosega, quando si limiterà consolidare il potere di quelli che in Argentina l’hanno sempre avuto».

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