Di Lucy Salani si è detto spesso che abbia vissuto tante vite: l’infanzia come Luciano, la detenzione nel campo di concentramento di Dachau da «omosessuale», poi l’affermazione della sua identità di donna trans. La sua, in realtà, è la storia di una tenace fuga durata decenni, per poter vivere appieno l’unica vita che le apparteneva davvero. Quasi un secolo di esistenza, che ha valicato i confini dell’ordinario per poi concludersi nell’abbandono alla quotidianità degli affetti.

Gli ultimi tempi erano stati segnati da un corpo indebolito dagli anni e dagli eventi che lo avevano attraversato «e per lei, che ha sempre vissuto come fosse un’eterna giovane, era diventato difficile sopportarlo». Lo racconta al manifesto Vincenzo Branà, che con Ambra, Kai, Simone e Porpora Marcasciano, era uno di quelli che Lucy chiamava i suoi «nipoti». Testimoni fino all’ultimo di una vita vissuta con intensità, la ricordano come «indomita e dedita all’amore».

NATA A FOSSANO NEL 1924, in un periodo storico in cui la parola transizione non esisteva nemmeno, trascorse la propria infanzia come «Luciano», un nome mai rinnegato, «non per resa, ma per una grande pacificazione con la sua storia personale – spiega Vincenzo -. Perché diceva che era il nome scelto dai suoi genitori».

Il fascismo, che fu artefice di buona parte della sua vita e certamente della più dolorosa, lo raccontava come un elemento insito nella sua famiglia, che sin da piccola l’aveva iscritta ai Balilla. Allo scoppio della guerra, a nulla le valse dichiararsi omosessuale per sottrarsi alla leva obbligatoria. Per una pacifista qual era, quello segnò l’inizio di una fuga continua: prima dall’esercito italiano, dopo la firma dell’armistizio nel ‘43, e poi dalle truppe nazifasciste.

Mandata nel campo di lavoro forzato di Bernau, in Germania, riuscì a scappare anche da lì, ma, scoperta e catturata, venne internata nel campo di concentramento di Dachau, segnalata con il triangolo rosso riservato ai disertori.

I ricordi della detenzione l’avrebbero poi tormentata per tutta la vita, facendola svegliare di soprassalto la notte anche a distanza di anni. Nei suoi incubi vedeva, forse, le centinaia di cadaveri che aveva dovuto trasportare verso i forni crematori, alcuni dei quali, raccontava, a volte le sembrava si muovessero ancora.

Lucy Salani in una foto di scena tratta dal documentario di Gianni Amelio “Felice chi è diverso” presentato al Festival di Berlino nella sezione Panorama, Roma, 10 Febbraio 2014. ANSA/ WEB/ MOVIEPLAYER

Riuscì poi a farsi spostare alla ricostruzione dei binari delle ferrovie, un lavoro che ogni giorno veniva disfatto dalle bombe e doveva essere ripreso quasi da capo. «Diceva che la cosa più scioccante – racconta un altro dei suoi “nipoti”, Simone – era che anche i bambini le tiravano le pietre. Era come se fossero stati tutti avvelenati dall’ideologia nazifascista».

Alla tenacia si aggiunse la fortuna e, dopo cinque mesi di detenzione, scampò anche l’ultimo rastrellamento prima della liberazione delle forze americane del 29 aprile 1945: raccolti tutti al centro del campo, i prigionieri vennero fucilati dall’alto delle torrette, ma Lucy, svenuta per il dolore di un proiettile alla gamba, fu creduta morta e lasciata con gli altri corpi in una fossa comune. Al suo risveglio si trovava in un’infermeria, dalla quale, ancora una volta, scappò. «Le avevano detto che avrebbe dovuto aspettare di guarire prima di poter andare via, ma lei non ne voleva saperne».

TORNATA IN ITALIA, la famiglia la rifiutò e poi la riprese, senza mai però accettare la sua identità di genere e continuando a riferirsi a lei come Luciano, un nome da lei definito «un codice familiare». Peregrinando da una tappa del mondo all’altra, la persecuzione continuò a seguirla anche nella vita ordinaria.

Così che, tra un lavoro come tappezziera e l’avanspettacolo, la sostenibilità economica arrivava principalmente dalla prostituzione, realtà che aveva conosciuto sin dall’adolescenza e che aveva sempre rivendicato come un dato di fatto nella sua esistenza da donna trans.

Persino la riattribuzione chirurgica del sesso, che avrebbe potuto rappresentare una tappa nodale di una vita vissuta all’insegna dell’autodeterminazione, fu invece una rinuncia «inconsapevole a qualsiasi piacere sessuale», per la scarsa attenzione che veniva data alla ricostruzione della sensibilità dei genitali.

Stabilitasi a Bologna negli anni ‘80, la sua storia cominciò a circolare solo dal Duemila – raccontata in un libro e poi in una serie di documentari -, «diventando un patrimonio e un monumento contemporaneo di un secolo intero» ricorda Vincenzo. Da sempre donna in fuga, Lucy trovò stabilità nella rete della comunità Lgbt+ della città, che la riconosceva non solo come simbolo di resistenza, ma anche come «una persona sola e bisognosa di amicizia».

Negli ultimi tempi, una serie di ospedalizzazioni per problemi cardiaci legati all’età «l’avevano messa di fronte alla consapevolezza della sua anzianità – continua Vincenzo – e mi accorgevo che la vita iniziava a diventarle pesante».

LA SUA SCOMPARSA non è in grado di cancellare una storia che da decenni è ispirazione e stimolo di cambiamento per la collettività. «Lei pensava che la soluzione all’intolleranza non dovesse partire dalle leggi, ma dalle persone. E che vale sempre la pena di lottare per affermare la propria identità».