Con il racconto odierno si conclude il ciclo di sette storie – curate da Eugenio Renzi e raccolte sotto il titolo «Le fuorilegge».Cosa grida la folla a quelle donne? Non grida «assassina», «ladra» ma «puttana» «fatti stuprare». Si tratta di un’ignominia antica che sopravvive e riemerge in tutte le epoche. L’idea de «Le fuorilegge» è quindi di farne una piccola archeologia attraverso alcuni ritratti cinematografici: dalla rivoluzionaria Angela Davis passando alle domestiche Papin, la folle Ida Dalser, la comunarda Louise Michel. Le puntate precedenti sono uscite il 5, 12, 19, 26 luglio e il 2
e 9 agosto.

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Nel dicembre del 1920, al congresso di Tour, i comunisti si separano dai socialisti e fondano la Sezione Francese dell’Internazionale Comunista. Un anno dopo, nella piccola cittadina portuaria di Douarnenez, sulla punta estrema del Finistère, in un lembo di terra rosicchiato dall’Atlantico, i marinai e le operaie delle fabbriche di sardine eleggono il primo sindaco comunista della storia francese. È soprattutto a queste ultime, «les sardinières», e ai comitati di lotta da loro animati che si deve la vittoria del candidato operaio, che arriva dopo un lungo sciopero per ottenere delle condizioni di lavoro dignitose, tenacemente condotto contro un padronato spietato, spalleggiato da un clero particolarmente reazionario. Il sindaco eletto si chiama Sebastien Velly. La sua prima misura è simbolica, ma significativa: nel centro della città, il consiglio comunale intitola una via a Louise Michel.

ERA NATA 90 anni prima, all’estremo opposto del paese, figlia di una serva e di un castellano che non la riconosce. Ha un’infanzia felice grazie ai nonni paterni, che le assicurano una buona educazione e le fanno leggere Voltaire e Rousseau. Ovvero la coppia di autori della tiritera «la faute à…», che il «gamin» Gavroche canticchia sulle barricate dei Miserabili di Victor Hugo – con il quale Louise Michel inizia, già nel 1850, un’intensa corrispondenza, che durerà fino al 1876. Nel 1851 ottiene un diploma per insegnare ai bambini delle elementari. Dopo aver aperto due scuole in provincia, trova un posto a Parigi e si stabilisce nella popolare rue du Chateau d’eau che, intersecando la rue du Faubourg St Denis forma uno dei quartieri più popolari della capitale, a ridosso della Gare de l’Est e della Gare du Nord. Qui continua la sua opera di educazione popolare e si impegna in diverse dimostrazioni. Fa parte del «Club della Rivoluzione» ed è membro del comitato del quartiere di Montmartre. Quest’ultimo, costituito da blanquisti e socialisti rivoluzionari ha un ruolo chiave nell’episodio dei cannoni, in seguito al quale inizia la sommossa dalla quale nasce la Comune di Parigi.
La città è divisa in comitati o consigli, come quello di Montmartre, nel quale confluiscono i lavoratori affiliati all’associazione internazionale e molte donne. Sono i primi esempi concreti di una democrazia comunista. La loro funzione è al tempo stesso politica e sociale, al loro interno vengono prese delle decisioni di governo militare e civile. Ma sono anche un luogo di emancipazione, di educazione e di assistenza. In essi converge, nel bene e nel male, tutta l’esperienza teorica e pratica del lungo ottocento, e della sua città più rivoluzionaria. Louise Michel è l’immagine vivente di questa duplice anima. Mentre la città assediata patisce la fame, crea delle mense popolari. Ma non è Maria Teresa: è una rivoluzionaria che veste l’uniforme dei federati e che, con l’ala più radicale del movimento, chiede di marciare su Versailles, di dissolvere il governo, e si propone personalmente per andare ad ammazzare Adolphe Thiers. Non è seguita, e quest’errore strategico sarà pagato caro, perché permette alla borghesia di organizzare la controrivoluzione.

LA COMUNE, si sa, ha fatto pochi morti. I suoi nemici non le hanno reso il favore. La repressione fu pari al livello di inquietudine che quell’esperienza suscitò nella borghesia europea, e mostrò a futura memoria di quali orrori è capace la classe che rivendica la dichiarazione universale dei diritti umani, quando i suoi privilegi sono minacciati. La maggior parte dei membri del comitato di Montmartre furono uccisi durante la «settimana di sangue» del maggio 1871. Altri furono deportati. La femminista Paule Mink che, tra le altre cose, insieme a Louise Michel, aveva organizzato una scuola nell’edificio della Chiesa di San Pietro, riusci a sfuggire alla repressione e scappò in Svizzera a bordo di una locomotiva. La rivoluzionaria russa Anna Jacklar fu arrestata e condannata a morte, ma riuscì anche lei a evadere e ad trovare rifugio a Londra, dove, come tanti altri, fu accolta dai coniugi Marx.
Louise Michel fu arrestata sulle barricate. O meglio, si consegnò per salvare la madre che era stata arrestata al posto suo. Le parole che rivolse al suo tribunale ispirarono ad Hugo la poesia Viro Major, e fanno eco alla risata di Djamila Bouhared o al rifiuto di Beatrice Cenci di denunciare il padre che pure aveva ucciso, nessun riconoscimento è offerto al nemico, nessuna autorità è riconosciuta ai suoi tribunali: «Quello che voglio da voi è il patibolo di Satory dove sono caduti i nostri fratelli; bisogna esiliarmi dalla società. Vi ha detto di farlo, ed ha ragione. Poiché sembra che ogni cuore che batte per la libertà abbia diritto oggigiorno solo al piombo, chiedo anch’io la mia parte !»

NONOSTANTE la sua richiesta, il tribunale non la condannò a morte, ma alla deportazione. La regista islandese Solveig Anspach, che nel 2010 le ha dedicato un film biografico (Louise Michel, la rébelle, con Sylvie Testud nella parte della rivoluzionaria) parte proprio da qui; rinunciando con pudore a immaginare la Comune, il suo film illustra gli anni dell’esilio in Nuova Caledonia. Si tratta di un’opera seria e giudiziosa, e che – pur parlando d’anarchia, di ribellione e di idee nuove – manca clamorosamente di tutte e tre queste cose. Ma il cinema aveva già vendicato, a suo modo, Louise Michel grazie ai due autori belgi Benoît Delépine e Gustave Kervern (Louise-Michel, 2008). La scena vale il film. Un mattino come un altro, recandosi al lavoro, le operaie di un’industria tessile trovano la fabbrica vuota. Il padrone ha smantellato tutto e venduto i macchinari. Riunite in un bistrot, discutono sul da farsi. Come buonuscita, hanno ricevuto 2000 euro a testa, 100 per ogni anno di lavoro. Quanto fa in franchi? – chiede una – 13 000. Ma è una cifra ridicola! Se ci mettiamo insieme – afferma un’altra – fanno 20000 euro. D’accordo, ma che fare? Potremmo aprire una pizzeria – segue un silenzio imbarazzato, rotto da un colpo di tosse della padrona del locale. Facciamo un calendario nude! – Altro silenzio. Io ho un’idea – dice una voce fuori campo. Ti ascoltiamo, Louise – controcampo su Yolande Moreau (in questo film, al culmine della sua arte drammatica): Con 20000 euro potremmo pagare un professionista per ammazzare il padrone. Il resto del film è un’avventura picaresca, in cui la goffa ma testarda operaia Louise si associa al maldestro sedicente esperto di sicurezza d’un campeggio, e sicario a tempo perso, Michel (Bouli Lanners). Tra Louise e Michel c’è, come nel titolo originale, «un trait d’union» (letteralmente un trattino che unisce) di mostruosità comica che, più di ogni altro ritratto o affresco storico, afferma in maniera molto seria una diversità di classe non riconciliabile. È un’immagine che risponde perfettamente a quella che Louise Michel ha consegnato alla storia, alle generazioni future, a noi.

IL COMUNISMO, a Douarnenez, ha resistito quasi un secolo. Se ne vedono le tracce nelle case popolari, costruite davanti al mare per dare agli operai una vista simile a quella di cui godono i padroni delle fabbriche di pesce in scatola. C’è una scuola di educazione musicale, e un gran numero di strutture per le feste e per lo sport. La piccola strada intitolata a Louise Michel è ancora là, interseca la rue du Centre (via del Centro) in maniera assolutamente perpendicolare. Ma da alcuni anni è la destra a governare la città. I marinai e le sardinières sono invecchiati, si aggirano in macchina per centri commerciali. I loro figli, se ne hanno, sono andati via. L’errore è sempre lo stesso: non si è voluto ammazzare il padrone.

7-fine