Cosa grida la folla alle fuorilegge? Non grida «assassina», «ladra» o «terrorista» ma «puttana», «fatti stuprare», «dalla all’uomo nero». Lo abbiamo visto sulle banchine del porto di Lampedusa. Si tratta di un’ignominia antica che sopravvive e riemerge in tutte le epoche. L’idea di «Le fuorilegge» è di tentarne una piccola archeologia attraverso alcuni ritratti cinematografici, prendendo casi diversi come la parricida Violette Noizière, la rivoluzionaria Angela Davis, le domestiche Papin, la folle Ida Dalser, la comunarda Louise Michel… Si tratta da un lato di vedere come e in che misura l’essere non sottomesse all’autorità maschile è il capo d’accusa di fondo di tutti questi casi celebri. E quindi di come le fuorilegge sono in ultima analisi fuori norma. E da un altro lato di vedere come intorno a questo crimine si crea rapidamente un delirio di desideri contrapposti, dai quali emergono dei ritratti che si accumulano come maschere sui personaggi effettivamente esistiti; e come il cinema, pur reinventandole, usa queste donne come vettori per accedere ad uno stato del mondo.

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Christiane Taubira è una donna di legge. La legge che riconosce nella schiavitù un crimine contro l’umanità (21 maggio 2001) porta il suo nome. Così come la legge che in Francia istituisce il matrimonio per tutte le coppie, da lei difesa davanti al parlamento con coraggio, forza e poesia durante la sua esperienza di guardasigilli (2012-16). Nello stesso periodo, Taubira fu bersagliata da una selva di insulti razzisti da parte di politici reazionari, di pubblicazioni tradizionaliste, di semplici internauti.

La rivista «Minute», giocando con espressioni ideomatiche «malin comme un singe» e «avoir la banane» (furba come una scimmia, essere in forma), è arrivata ad equipararla ad un primate. Eppure, interrogata sulla propria esperienza di legislatrice, Taubira ha affermato che la forma di dominio più antica, dura e radicata, quella che in ultima analisi fa da modello alle altre, non è quella dei bianchi sui neri, né quella dei padroni sui servi, ma quella dei maschi sulle donne.

È questa convinzione che la porta, in aperto contrasto con la propria famiglia politica (socialisti e radicali), ad opporsi alla legge del 2012 sui segni religiosi nelle scuole pubbliche, argomentando da un lato che «costringere invece di convincere vuol dire diminuire il ruolo della Repubblica, ed evitare di affrontare i veri nodi dello scontro etnico» e dall’altro che, nei fatti, la legge stigmatizza soprattutto le donne. Questo è quello che pensa una donna di legge.

MA COSA ne pensa una fuorilegge? Apparentemente, la stessa cosa. Nel marzo 2013, la militante comunista afroamericana Angela Davis aveva scritto al presidente francese Hollande per denunciare una legge «razzista» che «prende di mira in primo luogo le donne e finirà per escludere le più vulnerabili tra di esse dal mondo del lavoro e dell’educazione».

Aspettando un film su Christiane Taubira, un documentario rintraccia la storia «criminale» di Angela Davis. Lo ha girato Shola Lynch nel 2012, prendendo in prestito il titolo dallo slogan e dal nome dell’associazione che, tra il 1970 e 1972 ha lottato per la liberazione di Angela Davis, e che è riuscita a far nascere un movimento di solidarietà internazionale per i prigionieri politici intorno al motto «Free Angela and All Political Prisoners».

Il 13 ottobre del 1970 Angela Davis è arrestata a New York dall’Fbi. Ha ventisei anni. Era entrata in clandestinità 3 mesi prima. Ma era fuorilegge già da tempo. Le diverse prigioni, fisiche e non, in cui Angela Davis è stata rinchiusa, così come la sua lotta per scardinarle, cominciano fin dall’infanzia in Alabama, nel quartiere a maggioranza bianca dove i suoi si sono trasferiti qualche anno prima. I residenti bianchi mal sopportano la presenza dei neri. Alcuni politici di spicco del consiglio comunale incitano senza remore la popolazione al linciaggio. Delle bombe esplodono davanti alle case dei neri, tanto che il quartiere viene soprannominato «La collina della dinamite».

ANNI DOPO, ad un giornalista che le chiede se condanna la violenza dei movimenti rivoluzionari Angela Davis risponde: «Ricordo ancora l’onda d’urto delle esplosioni che scuotevano la nostra casa quando ero bambina, ricordo mio padre sempre armato perché in ogni momento potevamo essere attaccati, ricordo i corpi dei miei amici dilaniati… Chi fa domande sulla violenza, non ha idea di che cosa voglia dire essere nero in America».

Per sfuggire alla segregazione, Angela va a studiare alla Elisabeth Irwin High School di New York, dove insegnano molti professori di sinistra che il maccartismo ha escluso dalla scuola pubblica. È qui che comincia a familiarizzare con le basi del marxismo e che partecipa attivamente al movimento per i diritti civili. Nel ’62 si iscrive all’università di Brandeis, nel Massachussets, e assiste, tra l’altro, ai seminari di James Baldwin e di Herbert Marcuse.

In seguito, la troviamo a Francoforte, in Germania, dove inizia una tesi di dottorato con Adorno che finisce a San Diego, sotto la direzione di Marcuse. Il suo è il ritratto di una studentessa impegnata politicamente ma soprattutto promessa ad un avvenire accademico certo. Le vengono fatte diverse proposte, lei sceglie un posto all’università di San Diego. Ma Angela è anche membro del Che-Lumumba Club, sezione afroamericana del Partito Comunista. Per questa affiliazione politica, l’allora presidente dello Stato della California Ronald Reagan propone la sua esclusione dall’università, che il consiglio universitario decreta. Mentre si decide del suo avvenire accademico, lei protesta, ma per un’altra causa.

Le prigioni americane traboccano di gente di colore. Ma il caso di George Jackson, Fleeta Drumgo, John Clutchette, «i tre di Soledad» come vengono chiamati, è esemplare. Condannati a lunghe pene per piccoli crimini, vengono accusati in carcere di aver ucciso una guardia bianca. In loro difesa si forma un comitato che riunisce scrittori, intellettuali e militanti del movimento per i diritti civili. Tra questi, in prima fila, c’è Angela Davis. La quale comincia a corrispondere con George Jackson, che in carcere si è politicizzato ed è diventato un leader carismatico della frangia marxista del movimento nero. Jackson sarà assassinato durante un tentativo di fuga nel 1971, tre giorni prima dell’apertura del processo che infine riconoscerà l’innocenza dei tre di Soledad.

Un anno prima, il fratello minore Jonathan, che ha solo 17 anni, viene ucciso durante un tentativo di liberare quattro prigionieri nel tribunale di Marin County, che fallisce e nel quale viene ucciso un giudice. Le armi che impugna sono state acquistate da Angela Davis (durante il periodo in cui, da insegnante, riceveva ogni giorno minacce di morte). Viene diffuso un mandato di cattura, ma Angela Davis è già entrata in clandestinità.

TORNIAMO allora alla questione principale. Chi è Angela Davis? È un’afroamericana in un paese razzista? È un’intellettuale marxista in una società dogmatica e bigotta? Una militante comunista in un paese dove questa posizione è di per sé un crimine? Tutte queste cose, ma non solo. Con Free Angela vediamo aggiungersi un altro motivo di esclusione – il suo essere donna e femminista – non meno fondamentale perché trasversale al terreno della reazione e a quello della rivoluzione. Il suo femminismo le impedisce infatti di aderire completamente al partito delle Black Panters, in cui le donne sono strutturalmente sottomesse ai leader maschi. Per questo Angela si iscrive al già citato Che-Lumumba Club.

Anche il suo processo, contro ogni logica, è rivolto più alla donna che alla militante. Mentre nei processi che a partire dagli anni 1940 vengono istruiti contro i leader comunisti, vengono letti a carico degli accusati degli estratti delle opere di Marx o di Lenin, nel caso di Angela Davis furono letti passaggi le lettere che lei scrisse a George Jackson, e in particolare quei momenti in cui lei confessa all’altro amore e devozione.

L’IDEA che una donna possa agire per semplici motivazioni ideologiche non è convincente per il procuratore il quale decide di basare l’essenziale della sua strategia processuale sulla relazione amorosa, negando in ultima analisi il movente politico. La strategia si rivela perdente: nel 1972, Angela Davis è assolta da tutti e tre i capi di imputazione. Ma il modo con cui il suo processo si è svolto conferma una verità più ampia: l’accusa principale, per una fuorilegge, è quella di essere una donna.