Si dice che Beatrice Cenci fosse bellissima. È forse questa la ragione che le valse la simpatia del popolo romano? Oppure fu la complicità, sentimentale e criminale, che questa giovane rampolla di una famiglia patrizia aveva trovato in un uomo del popolo, l’intendente dei Colonna Olimpo Cavalletti, autore materiale dell’omicidio di Francesco Cenci? Furono le sofferenze che ella subì alla rocca di Petrella, da parte d’un padre crudele, autoritario, stupratore? O il fatto che seppe tenergli testa e vendicarsi da sé? O infine furono le torture alla quale venne sottoposta nelle segrete del Castel Sant Angelo, durante gli interrogatori della giustizia pontificia ai quali seppe resistere a lungo? E che cosa ha visto il cinema italiano in lei, che per sette volte, dal 1909 al 1969, ne ha adattato la vicenda?

DI CERTO c’è che, la sera del 9 settembre del 1598, nella rocca di Petrella, Olimpio Cavalletti e Marzio da Fioran detto il catalano stordiscono e poi uccidono con due ferri aguzzi il conte Francesco Cenci. In seguito, gli assassini cercano di mascherare il delitto simulando una caduta accidentale dalla balaustra del castello, ma invano. Dopo alcune indagini, vengono arrestati i figli del conte – Giacomo, Beatrice, Berardo – e la loro matrigna, Lucrezia. Sottoposti a tortura, finiscono tutti per confessare di essere i mandanti del crimine. Circa un anno dopo, l’11 settembre del 1599, a Roma, su un patibolo nei pressi del ponte di Castel Sant Angelo, vengono decapitate con la spada Lucrezia e Beatrice. Quest’ultima ha 22 anni. Si tratta di una versione pietosa del rito previsto dal codice che sconta invece il fratello maggiore Giacomo, martirizzato e poi squartato pubblicamente. Il minore, Berardo, tredicenne all’epoca dei fatti, è invece graziato e inviato alle galere pontificie. I cronisti raccontano che, il giorno dell’esecuzione, una cappa di caldo fuori dal comune avviluppava la città. Cionostante, una gran massa di gente accorse nei pressi del patibolo. Tanto che i primi a morire furono proprio alcuni dei presenti, per l’afa o per la calca. Si sa che, in questo genere di circostanze, la folla schernisce i condannati, non si immedesima nella loro sorte ma al contrario se ne rallegra – specialmente se, come per i Cenci, si tratta di personalità appartenenti all’aristocrazia. In questo caso invece, il popolo si schierò nettamente con la giovane Beatrice.

 

 

GIÀ IL PROCESSO era stato seguito con grande partecipazione. Per l’accusa, Beatrice è una donna lasciva, decisa a liberarsi del padre ché si oppone alla tresca con Olimpo Cavalletti; è lei, sempre per l’accusa, a spingere i fratelli e la matrigna al delitto, col movente di mettere le mani sui beni del conte. Per il difensore, Prospero Farinacci, Beatrice è tutto il contrario. Si tratta di una semplice ragazza, pura d’animo, vittima della propria bellezza e di un padre perverso che abusa di lei. Ma i giudici non si lasciano convincere, anche perché Beatrice non conferma le accuse del proprio difensore. Clemente VIII, nonostante la pressione popolare al quale la chiesa di Roma è spesso sensibile, non concede la grazia. Il popolo invece continua a credere a questa seconda Beatrice, e vede nel suo rifiuto di insozzare il nome del padre una conferma d’un candore interiore altrettanto splendente di quello esteriore. E tutti maledicono Francesco Cenci, già noto a Roma per la sua disonestà, per il suo carattere violento, autoritario e disonesto che lo aveva portato più volte ad essere coinvolto in fatti di sangue.

Ritratto di Guido Reni

IL CINEMA entra in gioco dentro questo quadro dove da un lato c’è un personaggio maschile dai tratti chiaramente determinati, e dall’altro il personaggio ben più ambiguo di Beatrice, che nell’Ottocento ha ispirato decine di autori, tra i quali Percy Shelley (la tragedia The Cenci, 1819) e Stendhal (il racconto «I Cenci», in Cronache Italiane del 1829). Opere ai quali gli sceneggiatori attingono per creare una serie di Beatrici molto variegate tra di loro, come se il personaggio storico, più che una fonte di ispirazione fosse un contenitore da svuotare di volta in volta per colmarlo con la morale del momento. Il film di Guido Brignone del 1941 è il primo parlato (se si esclude la versione sonorizzata del film del 1926 di Baldassarre Negroni). È un’opera tipica degli studi di Cinecittà sul finire dell’epoca fascista. La sceneggiatura è scritta con l’italiano canonico, letterario e astratto, imposto dal regime e che, nonostante gli sforzi degli sceneggiatori, schiaccia tutti i personaggi su uno sfondo sociale quasi indistinto. Ma già in quel primo anno di conflitto, Cinecittà si permetteva alcune piccole innovazioni.
Davanti ai dialoghi tra Olimpio e Beatrice, chiudendo gli occhi, sembra di sentire le voci di Anna Magnani e di Francesco Grandjacquet, in quelle scene di Roma città aperta dove l’italiano è più sorvegliato. Come quando Pina e Francesco si parlano nella tromba delle scale e viene fuori, intriso di etica comunista, il lirismo dei drammi degli anni trenta. I momenti in cui i due film avrebbero potuto incontrarsi sono in effetti molti anche dal punto di vista della regia: le scene di tortura in prigione, la condanna a morte da parte dell’autorità, e soprattutto lo sguardo del popolo sul dramma in atto. Ma la strada tra il ’41 e il ’45 è ancora lunga, e Brignone non è Rossellini. Resta che il suo film è il solo su Beatrice Cenci nel quale la presenza del popolo è un po’ più che suggerita.

Beatrice Cenci di Lucio Fulci

IL SUCCESSIVO adattamento, di Riccardo Freda, è un’opera teatrale in cinemascope a cui mancano solo le parti cantate. Nell’Italia del 1941 Beatrice era una donna. In quella del 1957, e in questo cinema radicalmente anti-realista, è diventata una fanciulla, poco più che bambina, con la quale Gino Cervi, assai poco disinvolto nei panni del vizioso Francesco Cenci, riesce ad essere al massimo scorbutico, a tratti violento, ma mai veramente sadico o sufficientemente perverso per dare senso all’intrigo. In generale, tutte le opere sembrano voler proteggere lo spettatore dall’idea che Beatrice possa essere stata al tempo stesso una vittima e una carnefice, ovvero una donna che nel momento in cui agisce è pienamente cosciente della propria situazione. L’altro elemento di fondo è il contesto del potere che giudica Beatrice (e il resto della famiglia). Fino al film di Freda compreso, gli inquisitori sono servitori d’uno Stato in cui gli autori vedono semplicemente l’incarnazione storica della giustizia in generale. E ciò che si oppone e che opprime Beatrice Cenci non è il potere in generale ma un intrigo particolare che impedisce alla verità di essere trovata.

VERITÀ che preme ai suoi torturatori non meno di quanto prema a lei. E infatti, quando infine, qualche secondo dopo che il boia ha fatto il suo dovere, arriva una confessione manoscritta che scagiona Beatrice, è troppo tardi salvare lei, ma non per assolvere il procuratore il quale, contrito per aver mandato un’innocente al patibolo, si lascia cadere sconsolato sulla sedia. Bisogna aspettare il 1968 e il bel film gore del regista Lucio Fulci – che si ispira da parte sua piuttosto al testo di Antonin Artaud del 1935 –, per avere una lettura più articolata del caso e della personalità di Beatrice. E per trovare una rappresentazione in cui la parricida non è vittima in quanto figlia di un padre stupratore ma in quanto donna in una società in cui lo stupro è la musica di fondo del potere.
4. continua