Louise Erdrich, il caos nelle vesti di un fantasma ingordo di letture
Scrittrici statunitensi Appena riesce a affrancarsi dal degrado al quale sembrava destinata la sua vita, la donna Ojibwe protagonista di «L’anno che bruciammo i fantasmi» riceve la visita di una invadente trapassata: da Feltrinelli
Scrittrici statunitensi Appena riesce a affrancarsi dal degrado al quale sembrava destinata la sua vita, la donna Ojibwe protagonista di «L’anno che bruciammo i fantasmi» riceve la visita di una invadente trapassata: da Feltrinelli
Nella sua lunga carriera di scrittrice, nella quale ha spaziato tra romanzo, narrativa per ragazzi, poesia, memoir e saggistica, Louise Erdrich si è progressivamente imposta come esponente di punta della letteratura native american ma anche, più in generale, come una delle voci dominanti nel quadro della fiction americana contemporanea.
Il suo percorso di scrittrice è stato segnato a lungo dalla presenza di Faulkner, ben visibile non solo per l’invenzione di un luogo in grado di farsi mondo – una riserva indiana insieme reale e simbolica – ma anche e soprattutto per le sue scelte strutturali: dalla frammentazione della trama, del punto di vista e delle voci narranti al rifiuto di qualunque facile coerenza cronologica. Soluzioni, queste, che nel contesto della narrativa contemporanea, spesso segnata dal ritorno a una trama di stampo più lineare, ha portato a considerare Erdrich una scrittrice «difficile», e per pochi lettori.
Il punto di svolta, premiato dal National Book Award, ha coinciso con l’uscita di La casa tonda, romanzo nel quale, rimanendo perfettamente all’interno dei temi a lei più cari, Erdrich rinunciava tanto alla frammentazione cronologica quanto alle continue variazioni del punto di vista, affidandosi a un’unica voce narrante e ponendo al centro della trama un episodio da crime novel, nutrito però da una forte sensibilità sociale e declinato a tratti come un vero e proprio racconto di formazione.
La vocazione al «romanzo mondo», la creazione di una galleria di personaggi potenzialmente illimitata e di inesauribile ricchezza, l’abbondanza di registri narrativi, la capacità di attingere a uno specifico evento storico e di costruire a partire da esso un’architettura narrativa tanto complessa quanto leggibile sono i punti di forza anche del Guardiano notturno, vincitore del Pulitzer 2021. Il romanzo ruota intorno a una data precisa: il 1° agosto 1953, quando il Congresso degli Stati Uniti annunciò una proposta di legge per abrogare i trattati bilaterali stipulati con le nazioni indiane d’America «finché crescerà l’erba e scorreranno i fiumi». L’annuncio implicava l’estinzione immediata di cinque tribù, tra cui quella dei chippewa della Turtle Mountain. Contro l’approvazione di questo progetto di legge si batté personalmente, in qualità di presidente tribale, il nonno di Erdrich, Patrick Gourneau: ed è alla sua battaglia, condotta con ogni mezzo possibile, redigendo decine di lettere, coinvolgendo tutti i membri della comunità e partendo alla volta di Washington per far sentire le proprie ragioni, che l’autrice attinge facendone l’architrave attorno alla quale gravitano le storie individuali dei personaggi e lo scorrere del tempo e delle generazioni nel suo ultimo romanzo, L’anno che bruciammo i fantasmi (traduzione puntuale ed efficace di Andrea Buzzi, Feltrinelli, pp. 357, € 20,00). Rispetto alla poderosa ricostruzione storica del Guardiano notturno, qui Louise Erdrich, sembra optare per un quadro più ristretto e vicino alla contemporaneità.
Come nella Casa tonda, anche tra queste pagine torna a privilegiare il punto di vista di un personaggio che campeggia al centro del racconto dalla prima all’ultima pagina: Tookie, donna Ojibwe che cresce senza una famiglia (non ricorda neppure quale sia il suo vero nome di battesimo), tra alcol e droghe, fino a quando non viene arrestata e condannata a sessant’anni di carcere per un reato ai limiti dell’inverosimile. Si è infatti lasciata convincere da un’amica, Danae, a rubare un furgone e a utilizzarlo per recuperare il cadavere di Budge, l’amante di Danae, morto tra le braccia della sua ex fidanzata Mara: ma nel trasporto non si è accorta che, sotto le ascelle del morto, erano incollati con del nastro adesivo due pacchi di crack. Quando esce in anticipo dal carcere grazie agli sforzi dell’avvocato della sua riserva indiana, Tookie è una donna diversa: in prigione ha scoperto la parola scritta e i libri, che «contengono tutto ciò che vale la pena di sapere tranne ciò che conta veramente», e riesce a farsi assumere in una libreria di Minneapolis, dimostrando un notevole talento come venditrice.
Tookie si sposa con Polux, l’agente della polizia nativa che l’aveva arrestata ma aveva fatto di tutto per evitarne la condanna, e cerca in ogni modo di calarsi nella sua nuova routine: «Ora», spiega, «vivo come una persona con una vita normale. Un lavoro con orari normali, e quando ho finito torno a casa da un marito normale. Ho persino una casa normale, piccola ma con un bel cortile grande, non molto normale e trasandato. Vivo come una persona che ha smesso di essere terrorizzata dalla sua quotidiana razione di tempo». L’ordine, però, «tende al disordine. Il caos insidia i nostri deboli sforzi. Bisogna sempre stare sul chi vive». E il caos si presenta nelle vesti di un fantasma: quello di Flora, una cliente della libreria, bianca ma con la smania di esibire origini native. Lettrice infaticabile e molesta, è morta il 2 novembre, «il giorno dei defunti, quando il velo fra i mondi è sottile e si lacera facilmente». Ed è morta stringendo tra le mani uno strano libro, anzi, un manoscritto nel quale si racconta la storia di un rapimento e di una prigionia: non di una donna bianca catturata dagli indiani, come accadeva nelle captivity narratives del Seicento e del Settecento, ma di una nativa sottratta alla propria tribù e costretta a vivere con una famiglia wasp. Dal giorno della morte, Flora continua a tormentare Tookie, facendo avvertire la sua presenza sia in libreria che in casa, e non intende andarsene fino a quando non riuscirà a rivelare il motivo segreto per il quale non può trovare pace nell’oltretomba.
L’intera prima parte del romanzo è quindi una storia di fantasmi, raccontata con uno stile erratico e frammentato, ricco di parentesi comiche e di dialoghi carichi di vitalità. Tookie si confronta con le altre donne della libreria – Jackie, che l’ha assunta; Penstemon, artista e scrittrice; Asema, attivista per i diritti dei nativi –, con il marito, con la figliastra Hattie, in pagine nelle quali l’orecchio infallibile per il parlato e l’abilità nel disegnare con pochi tratti una galleria di personaggi tridimensionali rendono la lettura piacevolissima.
Tuttavia, nella seconda parte di L’anno che bruciammo i fantasmi qualche problema nasce quando lo sguardo dell’autrice abbandona il piccolo e vivacissimo mondo di Tookie per narrare l’irruzione della pandemia prima, e le manifestazioni seguite all’assassinio di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis, poi. A ridosso dell’attualità, la scrittura di Erdrich perde parte del suo slancio, cerca di distendersi in forme di racconto più convenzionali, e paradossalmente finisce per dirci, sul razzismo della società americana e sull’eredità che ha lasciato nella psiche nativa, molto meno di quanto fosse già emerso da una piccola, ironica, vivacissima storia di fantasmi.
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