A tutt’oggi, nel paese più tecnologico del mondo, i risultati elettorali sono ancora parziali. Dati più precisi si sapranno ad almeno una decina di giorni dall’8 novembre. E anche allora saranno provvisori: non solo perché la composizione del Senato – 50 a 50, oppure 51 a 49 per l’uno o l’altro – si avrà solo dopo il ballottaggio del 6 dicembre in Georgia, ma perché i repubblicani li contesteranno, opponendo ricorsi legali e chiedendo riconteggi negli stati in cui la vittoria altrui è stata più risicata.

In ogni caso, l’attesa «onda rossa» repubblicana non c’è stata. Il fatto è notevole perché avvenuto con i sondaggi che davano l’approvazione per Biden al 40% e perché interrompe la tradizione secondo cui il partito del Presidente perde decine di seggi alla Camera dei Rappresentanti nelle prime elezioni di midterm che affronta. Questo è bastato perché Biden e i commentatori simpatetici salutassero il risultato meno negativo del temuto come «una vittoria della democrazia».

È indubbio che si tratti di un piccolo sospiro di sollievo sul piano politico-istituzionale per il Partito democratico. Ma più delle cifre in parte consolanti è importante ciò che le ha prodotte sul piano sociale: la partecipazione elettorale (alta per i midterm e appena sotto l’eccezionale 50% del 2018), il voto delle minoranze (solido, con qualche defezione solo tra gli ispanici), il voto delle donne (tutte più democratiche degli uomini) e il voto dei giovani (“dem” al di sotto dei 45 anni, ma soprattutto tra i 18 e i 29). Diseguale è stato l’atteggiamento dei votanti nei referendum sulla legalizzazione della marijuana, mentre quelli per la difesa del diritto all’aborto sono stati tutti vincenti. A conferma di quanto è sentita la causa e dell’importanza che hanno avuto le mobilitazioni degli ultimi mesi contro la decisione soppressiva della Corte suprema.

Infine una notazione su una componente sociale spesso trascurata nei commenti. Stando agli exit polls, il voto dei lavoratori, sia a tempo pieno, sia a tempo parziale, si divide quasi equamente tra i due partiti maggiori, ma in quel circa 20% di case in cui è presente almeno una tessera sindacale, il voto è stato 57 a 42 a favore dei democratici. E nelle città, contee, stati in cui la sindacalizzazione è più alta, i repubblicani sono stati sconfitti pressoché ovunque (le loro vittorie nello stato di New York sono state un’eccezione).

Esiste una corrispondenza tra queste dinamiche elettorali e la ripresa di combattività – scioperi, iniziative di organizzazione, denunce per attività antisindacale nelle aziende… – che era iniziata negli anni di Trump e si è intensificata nell’ultimo paio d’anni. Biden aveva cercato di valorizzare i fermenti operai già nella sua campagna elettorale, dicendo che sarebbe stato il «miglior amico del lavoro che sia mai stato alla Casa bianca» e comportandosi poi, da presidente, in modo abbastanza conseguente. Ora che i repubblicani avranno la maggioranza dei Rappresentanti, ma con uno scarto rispetto ai democratici che sarà minimo, la sintonizzazione dei democratici con il mondo del lavoro e con i movimenti sociali diventerà indispensabile in vista del 2024 (ed è significativo che la sinistra interna al partito si sia rafforzata).

Tuttavia, nel concreto dei processi legislativi, i repubblicani saranno in grado di intralciare l’azione politica della presidenza con forza ancora maggiore di quella con cui l’ha frenata da minoranza. Biden ha subito offerto loro la collaborazione nel Congresso, ma non la avrà.

È vero che un certo numero di candidati trumpiani sono stati bocciati, ma gran parte degli eletti è costituita da gente che continua a sostenere che la vittoria di Biden nel 2020 è stata rubata. E ancora pochi mesi fa il Comitato nazionale repubblicano ha deliberato che l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2017 rientra nel «legittimo discorso politico». Anche se riuscissero a non perdere il Senato, Biden e i democratici avranno vita molto difficile e poco produttiva. L’unica possibilità che il Congresso non diventi la palude in cui i repubblicani faranno affondare la presidenza attuale è legata alla continuazione della mobilitazione sociale.

Per questo sarà importante che i democratici e il loro prossimo candidato democratico alla presidenza si tengano sulla lunghezza d’onda delle donne, dei giovani, delle minoranze e del mondo del lavoro. Nel 2024, è assai improbabile che la sfida per la presidenza sia di nuovo tra Biden e Trump. Non è possibile sapere se i democratici saranno «bideniani», è certo invece che la loro corsa sarà ancora contro il partito trumpiano: sono trumpiane la macchina del partito repubblicano e la maggioranza degli eletti di oggi. Tra loro sarà forse necessaria una piccola correzione per adattare la destra smodata di Trump a quella più rigorosa di Ron DeSantis, il trionfante governatore della Florida che dopo queste elezioni sembra essere il suo più probabile successore.