L’onda astensionista dietro la nebbia elettorale
Con l’espressione «nebbia di guerra» si intende l’incapacità dei belligeranti di mettere nitidamente a fuoco la situazione sul campo, di valutare correttamente la propria capacità di azione e quella dell’avversario, di individuare le rispettive posizioni e prevedere con qualche attendibilità il corso degli eventi. Un analogo fenomeno sembra avvolgere l’Italia in questi torridi giorni. Potremmo chiamarlo «nebbia elettorale». Un’opaca velatura che restringe il campo visuale a una confusa contingenza e alle immediate adiacenze delle forze politiche, sempre più spesso compagnie di ventura che si raccolgono intorno a condottieri improvvisati per poi sciogliersi e ricomporsi sotto altre bandiere. Abbastanza generiche e vaghe da poter accogliere chiunque sotto la propria ombra. Pedine di un gioco senza regole e senza ragioni comprensibili.
Tentando almeno per un momento di discostarsi dal terreno della contesa, attraverso la nebbia elettorale si intravvedono, esasperate all’estremo, tre tendenze da tempo in atto. La prima è il divario, ormai divenuto una vera e propria antinomia (opposizione non ricomponibile) tra la geometria politica e la geometria elettorale, tra quel che resta di contenuti e obiettivi e la ragioneria dei numeri e dei seggi. Non è solo l’effetto di una legge elettorale psichedelica ma ormai una vera e propria forma mentis.
La seconda è la ben nota malattia senile della sinistra maggioritaria che consiste nel voler arginare la destra da destra: sottraendole temi e terreni, assecondando gli egoismi e le paure del suo elettorato conservatore, cercando non di metterne in crisi gli intendimenti, ma di sottrarre quanti più voti possibile.
Gli esempi sono talmente numerosi che ciascuno potrà rammentare quelli che più lo indignano, dalle politiche sui migranti di Minniti alla supina adesione a qualsiasi avventura bellica col timbro Nato. Questa inclinazione si riflette ovviamente sulle alleanze elettorali e sul tasso di ricattabilità del «campo progressista».
La terza tendenza, che mostra una accelerazione estrema, è il rapporto rovesciato tra formazioni politiche e forze sociali. Di queste ultime, o della loro storia, nessuna dirigenza di partito è anche solo indirettamente espressione. Il «capo politico» è generato dai mutevoli equilibri interni alle organizzazioni, dal gioco dei veti incrociati e delle astuzie, dal marketing dell’immagine e, sempre più spesso, dal puro e semplice caso. Una volta emersa in questo modo la figura del leader si offrirà di rappresentare diversi settori sociali attraverso un’affannosa raccolta degli interessi corporativi contingentemente presenti sul mercato politico.
Questo rovesciamento, ancor più della rissosa frammentazione, spiega fra l’altro l’indigenza in cui versa da tempo la cosiddetta sinistra radicale. Coloro che quest’ultima si offre insistentemente di rappresentare, gli svantaggiati, i precari, i lavoratori poveri, i movimenti giovanili e in generale le numerose vittime dell’aggressività neoliberale, non sembrano volersi far rappresentare da queste ininfluenti forze al cui processo di formazione non hanno se non del tutto marginalmente partecipato.
In breve, in assenza di movimenti sociali significativi (come vi sono stati in Francia e Spagna) il destino di questi piccoli partiti è segnato. Non c’è ragioneria elettoralistica né ragione politica che ne garantirà la sopravvivenza. Tanto vale lasciar perdere. Semmai è in ambito extraparlamentare che queste disastrate esperienze politiche possono tentare di ricostruirsi un qualche ruolo. Una sola forma di rappresentanza sopravvive, molto effimera e alquanto ripugnante, quella degli umori, di cui però si nutre soprattutto la destra.
In questo quadro desolante, l’ultima trincea che tutti sono chiamati a difendere è la Costituzione, minacciata da una maggioranza di destra abbastanza forte da cambiarne i connotati. Quando non si può andare avanti si tenti almeno di non andare indietro. Ma è un argomento di ultima istanza e assai debole di fronte ai molti che la Carta costituzionale non è stata sufficiente a preservare da una crescita esponenziale delle diseguaglianze e da innumerevoli forme di ingiustizia sociale. Se da quei presupposti non è scaturita una politica capace di porre freno al privilegio e allo sfruttamento, gli enunciati stessi diventano remoti ed opachi.
E, del resto, è stata la stessa sinistra, inseguendo il dogma della «governabilità», vale a dire la blindatura dei governanti di fronte all’insoddisfazione o alla rabbia dei governati, a minare la salutare e caotica fragilità della Repubblica parlamentare. Il presidenzialismo decisionista è occultamente incistato, in una forma o nell’altra, nelle ambizioni politiche di tutte le forze in campo, per non parlare dei capitani di ventura che se ne sono impadroniti.
Certamente la destra procederà in forma più brutale su questa strada, con piglio decisamente autoritario. Ma basterà una questione di gradazione a mobilitare l’elettorato a favore di una nebbia «progressista» nella quale ogni direzione di marcia si nasconde alla vista? Non serve la palla di cristallo per prevedere una fortissima astensione. E che qualcosa cambi da qui alla fine di settembre è altamente improbabile.
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