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Lockdown totale in Cisgiordania. Ben Gvir: 10mila fucili ai civili israeliani

Lockdown totale in Cisgiordania. Ben Gvir: 10mila fucili ai civili israelianiLa chiusura della comunità di Huwara – Ap/Ayman Nobani

Territori occupati Checkpoint chiusi ovunque, impossibile andare a scuola e al lavoro. E su internet compaiono le prime censure. Il ministro, in bilico, promette di armare i coloni e i cittadini delle città miste israeliane

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 11 ottobre 2023

«È tutto chiuso. Se stai a Betlemme, resti a Betlemme. Se stai a Hebron, resti a Hebron». Yasser dal suo villaggio alla periferia di Betlemme racconta la nuova realtà nella Cisgiordania occupata.

«Gli israeliani hanno chiuso con montagne di terra e blocchi di cemento le bypass road, le strade che dalle colonie portano dentro Israele». Ovvero le strade che – allo stesso tempo – collegano anche città palestinesi e piccole comunità.

«Un lockdown completo – aggiunge Hanan da Betlemme – Israele ha chiuso tutti i checkpoint da e per la Cisgiordania e quelli tra le città palestinesi». Perché questa è la normalità in Cisgiordania, tante piccole enclavi separate da colonie e checkpoint: ne chiudi uno, blocchi il movimento da est a ovest, da sud a nord. L’articolato sistema di frammentazione interna è considerato uno dei principali strumenti dell’occupazione israeliana, e anche il meno costoso: bastano un checkpoint e un gruppo di soldati.

 A GERUSALEMME la stessa scena «si limita» alle zone della periferia est: il campo profughi di Shuafat, Beit Iksa e al-Jib sono stati chiusi ermeticamente. Come vietato da ieri mattina è l’accesso alla Spianata delle Moschee: al-Aqsa è raggiungibile solo ai fedeli anziani.

Dentro le «bolle» palestinesi, si corre nei supermercati e alle stazioni di benzina, si fanno scorte. Il timore è che la chiusura durerà a lungo, interrompendo la vita di due milioni e mezzo di persone impossibilitate a muoversi, raggiungere il posto di lavoro, andare a scuola.

Un clima sospeso tra attesa, disillusione e paura. E proteste: continuano, insieme agli attacchi dei coloni, da Masafer Yatta ai dintorni di Nablus. È qui, in una delle città considerate da sempre l’alcova della resistenza palestinese, che nella notte tra lunedì e martedì l’esercito israeliano è di nuovo entrato, come successo svariate volte negli ultimi mesi.

Al momento, la principale forma di collegamento e scambio di informazione, è internet. Non senza molti dei limiti già sperimentati in passato: «La censura sui social media impatta sulla narrativa digitale – ci spiega Mona Shtaya, esperta palestinese di diritti digitali – Facebook ha ridotto la visibilità del principale hashtag usato dai palestinesi su Facebook per documentare violazioni dei diritti umani. Questo riduce la capacità di fare fact-checking o di accedere a informazioni. Questo approccio aiuta la stereotipizzazione dei palestinesi sui media e rafforza la militarizzazione digitale che giustifica la violenza e incrementa il rischio di incitamento all’odio».

A Gaza internet è off limits, non c’è elettricità. I tentativi di comunicazioni sono lenti, le persone contattate riescono a rispondere solo usando sim card dedicate a internet: «Quando la tensione sale a Gaza – aggiunge Shtaya – le infrastrutture dell’informazione sono un target, con bombardamenti mirati sugli edifici dei media. Perché il conflitto è anche una battaglia sulla narrazione». In Cisgiordania si prova ad aggirare le censure, usando l’emoticon del cocomero (stessi colori della bandiera palestinese) per limitare gli oscuramenti.

FUORI DALLA RETE, l’aria è pesante. Se la sollevazione che Hamas sperava di provocare nel resto dei Territori occupati palestinesi non è arrivata, almeno al momento, la narrazione del governo di ultradestra israeliano (in fase, forse, di revisione) non cambia e getta benzina sul fuoco di un possibile e terribile scontro armato interno alla Cisgiordania.

A farlo è il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, la cui testa potrebbe essere la prima a cadere nel caso di esecutivo di unità nazionale. Ieri ha annunciato l’acquisto di 10mila fucili «per armare le squadre di sicurezza civili», ovvero i movimenti organizzati dei coloni che negli insediamenti hanno propri team, a metà tra il militare e il civile, ma non solo.

Una parte sarà distribuita, aggiunge, alle città miste arabo-ebraiche dentro Israele. «Centinaia di città – dice – che hanno squadre di sicurezza legate alla polizia di frontiera israeliana». Un assaggio di quella guardia nazionale che spera di creare da quando è entrato al ministero e che verrebbe posta sotto i diretti ordini del suo dicastero.

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