«Lo stupro è solo l’aspetto più vistoso della violenza che le donne subiscono quotidianamente questa violenza nasce dal dominio che l’uomo ha consolidato storicamente nei suoi rapporti con la donna dunque è di per sé un fatto politico».

Questo scrivevano nel 1975 le femministe del collettivo di via Cherubini di Milano in occasione del dibattito che seguì il cosiddetto «massacro» del Circeo che sconvolse l’opinione pubblica. L’anno dopo il movimento femminista di Verona riprese queste analisi, in una grande manifestazione contro la violenza di genere, in occasione del primo processo per stupro a porte aperte.

A ESSERE CONTESTATA dalle donne, nel dibattito di allora, era un’interpretazione classista, sostenuta da molti intellettuali di sinistra, che leggeva la violenza sessuale del Circeo in chiave di oppressione di classe (i pariolini e le ragazze di borgata), offuscandone la radice di genere e il sessismo. Oggi il rischio mi sembra quello contrario, come suggeriscono vari interventi sui casi di Palermo e Caivano: quello di leggere gli stupri in chiave prevalentemente «ambientale», come conseguenze di un degrado sociale. Non c’è dubbio che il degrado aggiunga a queste violenze particolari agghiaccianti, rivelando una realtà sociale indegna di un paese civile. Ma lo stupro non ha questa matrice: è, e rimane, un crimine orrendo che distrugge la donna sia che venga consumato negli edifici fatiscenti, come nelle ville e attici lussuosi (come ben mostra il caso Genovese).

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Mi sembra questo un ulteriore tentativo di spostare lo sguardo dal cuore del problema, evitando di vederlo come l’esito di una cultura sessista che ha radici profonde nell’ordine patriarcale. Una cultura che permea la società e determina squilibri e dissimetrie di potere nelle relazioni di genere, come ha riconosciuto l’Onu nella Dichiarazione Sull’eliminazione della violenza contro le donne (1993) e la più recente Convenzione di Istanbul (2011). Ricompare con una frequenza allarmante, in vari commenti e sentenze attuali in Italia, quella «cultura solidale con lo stupro», come la definiva Susan Brownmiller in Against our will (1975), che minimizza la violenza maschile e/o la giustifica in vario modo, cercando responsabilità nel comportamento delle donne.

CERTO AI NOSTRI GIORNI non si arriva a dire che se la sono cercata, che dovevano «rimanere a casa presso il focolare», come sentenziato dagli avvocati difensori nel processo del Circeo. Si dice magari che non dovevano ubriacarsi per «non incontrare il lupo», o vestirsi in modo troppo succinto, ecc., perché, si sa i maschi sono così: «la carne è carne», come ha dichiarato uno degli stupratori di Palermo. Clamorose per «vittimizzazione secondaria» e stereotipi sessisti alcune recenti sentenze dei tribunali nazionali (come quella della Corte d’Appello di Firenze), per le quali l’Italia è stata pure sanzionata dalla Corte europea dei Diritti umani ( 2021), a riprova di una cultura trasversale rispetto alla classi sociali e ai livelli di istruzione e dalla quale neppure molte donne in quanto tali sono immuni.

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DECENNI DI BATTAGLIE e iniziative femministe (che hanno preceduto e stimolato interventi pubblici) hanno prodotto in 50 anni importanti strumenti che consentono oggi alle vittime di trovare assistenza, di rivendicare giustizia (dai Centri Antiviolenza, alle norme della legge 66/1996, al Codice Rosso, ecc.). E le donne vi fanno ricorso con una frequenza sempre maggiore, segno di una soggettività femminile che rifiuta il vittimismo, il silenzio, la vergogna. Il problema è che il cambiamento di genere è andato in questi decenni a due velocità e una larga parte del mondo maschile è rimasta ancorata a modelli di genere obsoleti, a privilegi e poteri tradizionali, che non trovano più riscontro in codici fascisti, ma che risultano enfatizzati in quella nuova platea che sono i social media.

I MASCHI INSOMMA andavano ri-educati: a distinguere, ad esempio, il potere della sessualità, l’amore dal possesso, la sopraffazione dalla relazione, la differenza dalla subalternità, a interiorizzare i limiti del proprio impulso e narcisismo. Perché il problema della violenza sessuale -se occorresse ribadirlo – è un problema maschile. Ed è su questo piano educativo e culturale, cioè proprio quello della prevenzione, che si evidenzia il colpevole vuoto di iniziative pubbliche (basti pensare che l’ Italia tra i paesi ultimi in Europa per educazione sessuale nelle scuole). Ora guardiamo con attenzione alle promesse fatte dal governo e alla proposta lanciata dai Ministro della Pubblica Istruzione e delle Pari Opportunità, di attivare corsi contro la violenza sessuale, augurandoci che non rimangano i soliti annunci fatti sull’onda emotiva della cronaca, destinati a spegnersi con l’ affievolirsi dei riflettori mediatici.

PERCHÉ QUELLO CHE necessita è una vera e propria offensiva culturale, un piano articolato e complessivo che preveda il coinvolgimento e la sinergia di tutte le agenzie educative, dei media, oltre che delle forze dell’ordine e della magistratura. L’avvio di questi programmi – lo sappiamo – non porta immediati vantaggi in termini elettorali; guarda ad un orizzonte più lontano di cambiamento culturale, e tuttavia rappresenterebbe un passo concreto nella direzione di promuovere quel cambiamento nelle relazioni di genere e nella cultura che può far sperare in una società migliore.

 

* Già docente di storia delle donne all’Università Ca’ Foscari di Venezia, autrice del libro ’Mai più sole contro la violenza sessuale. Una pagina storica del femminismo degli anni Settanta’ (Viella, 2022)