Il riscaldamento climatico preme? Niente paura, l’Italia lo combatte con nuove gelaterie in Oriente. Sale il livello del mare? Gli Stati Uniti corrono ai ripari costruendo nuovi hotel sulle coste di Haiti. A fermare le emissioni di anidride carbonica invece ci pensa il Giappone, che a questo scopo realizza centrali a carbone in Bangladesh, Indonesia e Vietnam e un nuovo aeroporto in Egitto. Finiscono (anche) così i soldi investiti dai Paesi più industrializzati in favore di quelli in via di sviluppo per mitigare l’impatto del cambiamento climatico. L’impegno a spendere così 100 miliardi di dollari l’anno era stato preso a Parigi nel 2015 durante l’annuale conferenza mondiale sul cambiamento climatico. Ora un’inchiesta dell’agenzia di stampa Reuters e del laboratorio di giornalismo dell’università di Stanford mostra che quell’impegno non solo è stato disatteso, ma è anche anzi stato usato per finanziare imprese che hanno ben poco effetto sul cambiamento climatico.

Esaminando circa 44 mila contributi comunicati alle Nazioni Unite dai governi, i reporter hanno calcolato che l’ammontare totale degli investimenti in cinque anni arriva a 182 miliardi, meno della metà rispetto alla promessa di Parigi. Inoltre, nessuno controlla davvero che quei soldi servano a mantenere l’impegno.

Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, il nostro governo ha classificato tra gli impegni climatici anche il finanziamento diretto allo storico marchio piemontese di gelaterie e cioccolaterie Venchi, che con quei soldi ha aperto punti vendita in Cina, Giappone e Indonesia. Siamo in buona compagnia. Il Belgio ha inserito tra i suoi investimenti «green» la lavorazione di un film ambientato in Argentina che racconta la love-story tra un dipendente di una cartiera e un’attivista ambientalista: «Il film si occupa di deforestazione», ha dichiarato alla Reuters il governo belga. Altri hanno invece inserito nel conto degli investimenti ambientali progetti che non sono mai stati realizzati, come la ristrutturazione della metropolitana di Città del Messico (267 milioni di dollari) e ammodernamenti portuali in Kenya (108 milioni) da parte della Francia. O l’assicurazione pagata dagli Usa per un impianto idroelettrico in Sudafrica mai realizzato.

Il Paese che vanta i maggiori investimenti in campo climatico è il Giappone, che nel quinquennio 2015-2020 ha riportato all’Onu 59 miliardi di dollari investiti, un terzo del totale mondiale. Tuttavia, gli analisti hanno scoperto che il conto comprende anche un prestito da 2,4 miliardi di euro per costruire la centrale a carbone di Matarbari, in Bangladesh, che immetterà ogni anno in atmosfera 6,8 milioni di tonnellate di anidride carbonica, più della città di San Francisco. Senza la tecnologia giapponese, le emissioni sarebbero state superiori del 6%, di qui il bollino verde. Anche in Vietnam e Indonesia verranno realizzate nuove centrali a carbone grazie agli investimenti «climatici» giapponesi. Tokyo finanzierà pure il nuovo aeroporto di Alessandria d’Egitto, che aumenterà il traffico aereo di 1,5 milioni di passeggeri e le emissioni del 50%. Ma avrà i pannelli solari e le lampade a led.

La presenza di progetti ad alto impatto ambientale al fianco di altri ben più meritori è dovuta alla mancanza di criteri chiari sugli investimenti che possono essere considerati «verdi». Non è solo colpa dei Paesi ricchi: anche i Paesi a basso reddito chiedono che i soldi esteri per la lotta al cambiamento climatico siano usati anche per le energie fossili perché questo permette loro di utilizzare riserve di cui sono ricchi per alimentare lo sviluppo economico locale.