L’irriducibile Paolo Poli
Paolo Poli
Visioni

L’irriducibile Paolo Poli

Ritratti L’attore fiorentino, scomparso venerdì a 86 anni, ha raccontato in scena attraverso la sua cultura multiforme e sterminata, l’Italietta e le sue istituzioni, i pregiudizi e i suoi comportamenti fascisti. Dagli esordi con la compagnia genovese la Borsa d’Arlecchino agli incontri romani, l’amicizia con Laura Betti e la lunga parentesi televisiva. Dai ’60 assurge a grande star del palcoscenico nazionale, con storie comiche, eppure di respiro intellettuale e politico
Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 27 marzo 2016

Se ne è andato con discrezione Paolo Poli, un mese dopo che un ictus l’aveva costretto al ricovero nell’ospedale romano Fatebenefratelli, dove la sua fibra fortissima era riuscita anche a superare una broncopolmonite.

Stava per compiere 87 anni (era nato nel maggio del 1929), ma era ancora un «ragazzo», asciutto e scattante, lasciati da due anni i palcoscenici perché era difficile tenere in piedi una compagnia quando anche un teatro di quelli cosiddetti primari, non gli aveva pagato i cachet, pur dopo un mese di sala esaurita. Non era impossibile fino ad allora, incrociarlo su qualche marciapiede ferroviario attorniato da un bel numero di valigie e borsoni. Gli piaceva assai fare l’attore, e addossarsene fatiche e difficoltà, anche quelle di spostamento.

Ora che non ci colpirà più con le sue battute, sferzanti come frustate, forse qualcuno si dedicherà a studiarne seriamente lo straordinario talento, la cultura multiforme e sterminata, l’arte ipnotica con cui ha fatto polpette di istituzioni e nazionalismi, pregiudizi e comportamenti fascisti, esibizioni machiste e valori consolidati sui ruoli e sui poteri.

Tutto questo, pur rivolgendosi in maniera privilegiata ad abbonati ed abbonate dei teatri più tradizionali, platee di giacche scure e pellicce fresche di parrucchiere, cui lui solleticava gli istinti più privati e inconfessabili, ne scopriva i limiti piccoloborghesi cantando canzonette d’epoca. Usando per altro la cultura più «seria» e la letteratura più amata, da cui lui poteva far scaturire il veleno moschicida dei buoni sentimenti falsamente intesi.

Del resto quel giovane fiorentino laureato su un drammaturgo francese, Henry Becque, e già avviato all’insegnamento (come la mamma, mentre il padre era carabiniere), aveva tutti gli strumenti per maneggiare i materiali più delicati. Ma l’amore per il teatro e l’intraprendenza civile lo fanno muovere già alla fine dei ’50 verso la Borsa d’Arlecchino genovese animata da Aldo Trionfo, e poi a Roma spinto da altri toscani come Franco Zeffirelli prima e poi Mauro Bolognini. Qualche parte in teatro, e tanti incontri cruciali ed elettrizzanti in quegli anni di boom anche dei costumi.

Con Laura Betti divide addirittura la casa a via Margutta, e insieme scandiscono attraverso La ballata del pover’uomo lo sceneggiato tv tratto dal romanzo di Fallada. Con la Masiero fa le operette, ma con Sandra Mondaini fanno una pestifera coppia di bambini birignao. Filiberto ed Arabella.

Si apre per Poli la strada maestra della tv dei ragazzi, distaccamento milanese della Rai dove si trova a lavorare con Claudia Lawrence sublime maestra di mimo, Jacqueline Perrotin enciclopedica maestra musicale capace di frugare nelle canzonacce pre e postfasciste come nella grandeur militarista francese; e con loro collaborerà poi per tutta la sua vita in palcoscenico, come con Santuzza Calì per i costumi sfolgoranti, Lele Luzzati per i meravigliosi fondali da sillabario, e Ida Omboni per le incursioni letterarie più deliranti.

Dagli anni ’60 infatti Paolo Poli assurge a grande star del palcoscenico nazionale. Capace di costruire un teatro fatto di grandi storie con piccoli mezzi, di citazioni classiche che non distinguono tra scrittura alta e bassa, ma sono sempre impregnate di rivelazioni stupefacenti e di allusioni spesso e volentieri inferte sotto la cintura.

Un teatro irresistibilmente comico, eppure di grande respiro intellettuale. Un teatro che è stato capace di essere aggressivamente «politico» ma senza volerla dare a vedere. Con effetti fragorosi sorprendenti, rappresentando il mitico futurismo marinettiano e «fascista» di Marinetti come Suggeritore nudo (letteralmente, appena velato da una calzamaglia a pelle), oppure scoprendo i deliri sacroerotici di Rita da Cascia, che gli valse denunce e censure.

Perché bisogna ricordare che una scuola di alta formazione è stata per Poli la mitica compagnia D’Origlia-Palmi, ultimo esemplare di ditta «all’antica italiana», di cui l’attore fu prima avido spettatore e poi reinventore originale. Così come lo fu, è notorio, l’altro asso del nuovo teatro italiano, Carmelo Bene: ci andavano tutti la domenica pomeriggio al teatrino di Borgo Santo Spirito, magari assieme alla suddetta Betti e ad altre future signore della scena, a bearsi e dannarsi dall’invidia e dalle risate, davanti a quelle vibranti «vite delle sante».

Del resto era quasi un omaggio forever a Bianca D’Origlia quella Nemica in travesti di Nicodemi che consacrò poco dopo Paolo Poli signora per sempre di un teatro capace di rappresentare buoni sentimenti e nefandezze, i vizi e i pregiudizi della nuova Italietta scudocrociata, mammona e crudele.

Da allora ogni anno, al massimo due, il beato Paolo che aveva ormai perso il pudore dell’ipocrisia, divenne un appuntamento imperdibile per pubblici diversi: quello degli abbonati che i teatri allora tenevano in attivo, e quello di giovani generazioni che scoprivano la possibilità di un teatro divertente e irriverente, ma in grado di infliggere sonori manrovesci ai valori costituiti, ai loro potentati, alle polizie da grand guignol che ne erano custodi. Per di più partendo da una ispirazione letteraria di alto e altissimo livello: gli autori di culto del Poli lettore raffinato e multiforme, dal prediletto Palazzeschi (dalla cui invocazione «Lasciatemi divertire» nasceva il titolo della trasmissione tv dell’attore dello scorso anno) a Queneau, da Parise ad Apuleio, da Savinio alla Ortese, da Swift a Pascoli tra i molti. Ma anche quelli superpop, da Dumas a Carolina Invernizio, per altro rispettata anche da Gramsci. Racconti fantastici e spesso gotici, capaci di dare nella loro essenzialità brividi insieme di inquietudine e di ilarità. Riscattati nei finali e nei bis da certe canzoncine «peccaminose» d’inizio ’900: La lattaia, La petite tonkinoise, e altre piacevolezze pornomilitariste.

Cantate con qualche malizia e molta crudeltà, magari assieme a Jole Silvani che come Milena Vukotic per un periodo lo hanno accompagnato in scena. E masticate dal coro del pubblico devoto di tutte le età.

Lì si chiudeva il sipario (dopo il suo ineluttabile gesto della mano che indicava l’uscita, anche questo condiviso con Carmelo Bene) e da lì bisognerebbe ripartire per dare dignità e spessore a un teatro che non è stato mai visto in profondità.

Spesso, anche nei primi commenti e ricordi sui giornali di ieri, si è finito per dare più importanza alla sua omosessualità e alla sua passione maniacale per il travestimento femminile. Che sono state appariscenti, anche perché Poli si divertiva a rispondere a quelle morbose curiosità sparandole ancora più grosse. Come quando approfondiva l’importanza estetica dei pompieri in servizio sul palcoscenico, o quando scegliendo il titolo per un libro di memorie, lamentava di aver avuto «tanti fiori, ma non il fioraio».

Irresistibile nella sua perfidia, crudele nella sua analisi antropologica, Paolo Poli era poi un fantastico narratore di favole per i bambini, e acutissimo nocchiero tra le ricette di Artusi registrate in un magnifico audiolibro. Ci ha insegnato e ci ha donato davvero molto; con la sua arte e col piacere che ci ha dato in tutti questi anni, bisognerà davvero fare i conti e rendergli i dovuti onori.

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