Sempre più veloce, anzi ultraveloce, a portata di click e di tutte le tasche. Facile da acquistare e ancor più facile da rendere, senza spese aggiuntive per il cliente e con costi irrisori per il venditore, ma con impatti sul pianeta e le comunità più fragili. Spenti i riflettori sulle settimane della moda – ispirazione per i capi «usa e getta» dei marchi che finiscono nei carrelli virtuali di milioni di consumatori – l’industria del fast fashion continua a macinare chilometri e tonnellate di abiti, aggravando la crisi climatica e dissipando risorse preziose. Archiviati anche i saldi invernali, inficiati da una stagione mite e dal proliferare di offerte online 365 giorni all’anno, la moda veloce non smette di girare e alimenta un sistema oggetto di un’inchiesta di Greenpeace Italia.

Per due mesi, l’organizzazione ha tracciato i viaggi di 24 capi d’abbigliamento del fast fashion acquistati e resi tramite le piattaforme e-commerce di Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, OVS, Shein e ASOS. I pacchi hanno percorso circa 100 mila km attraverso 13 Paesi europei e la Cina, su camion, aerei, furgoni e navi. La distanza media coperta da un indumento è stata di 4.502 km, il tragitto più lungo di 10.297 km. Gli abiti sono stati venduti e rivenduti 40 volte in totale e resi 29 volte, con un impatto ambientale medio in termini di emissioni di gas serra di 2,78 kg di CO 2 equivalente per chilo. Prendendo come esempio un paio di jeans, ordini e resi comportano un +24% di emissioni rispetto alla produzione. Il costo medio del carburante è di soli 0,87 euro.

Il prezzo più alto del fast fashion, ça va sans dire, è a carico del pianeta e dei diritti umani. Tra i comparti più inquinanti al mondo, la moda è vorace di materie prime: in Europa il consumo tessile è il quarto settore per impatto su ambiente e cambiamenti climatici, il terzo per consumo d’acqua e suolo; ogni anno, si gettano 12 kg a persona di indumenti e calzature, l’80% dei quali finisce in inceneritore o discarica, mentre quasi il 90% di abiti raccolti per il riutilizzo è esportato fuori dai confini europei, in Paesi come Ghana, Tunisia e Kenya.

Nel mondo, tra il 2000 e il 2015 la produzione tessile è raddoppiata – sebbene la durata di vita dei capi si sia dimezzata – e potrebbe triplicare entro il 2030. Un trend spinto dall’avvento del fast fashion, con conseguenze sui lavoratori del comparto, la maggior parte in Asia, costretti a produrre di più e più rapidamente, in condizioni di rischio per salute e sicurezza, spesso per pochi centesimi a capo.

Per tutte queste ragioni, Greenpeace chiede al Governo italiano e all’Europa di regolamentare il fast fashion, di vietare sui social la pubblicità di brand dal business distruttivo, di imporre alle aziende informazioni trasparenti su approvvigionamento e produzione, di commercializzare abiti durevoli, riparabili e sostenibili: norme per arginare produzione incontrollata e shopping compulsivo, alimentati anche da acquisti e resi facilitati online. Un sistema dal peso decisamente insostenibile.