Tutto si può dire di Salvini, tranne che non abbia capito in quali argomenti bisogna infilarsi per ricevere subito applausi. Dopo migranti e Rom, ecco allora che arrivano le cartelle di Equitalia, odiatissime dagli italiani (con l’eccezione di chi paga tutte le tasse).

L’occasione è di quelle solenni, le celebrazioni del 224° anniversario della Fondazione della Guardia di Finanza: «Chiudere da subito tutte le cartelle esattoriali di Equitalia per cifre inferiori ai 100 mila euro, per liberare milioni di italiani incolpevoli ostaggi e farli tornare a lavorare, sorridere e pagare le tasse».

Chiudere? E che significa? Non certo che lo Stato rinuncia ad incassare queste somme, ma che è disposto ad incassarne di meno pur di fare cassa. «Pochi maledetti e subito», per compensare l’ammanco che causerebbe l’adozione della Flat Tax. La chiamano «pace fiscale», di fatto sarebbe un nuovo e più ingiusto condono, che, per le sue dimensioni, comporterebbe una sconfessione del principio di uguaglianza formale («tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge») sancito dalla Costituzione e, per il futuro, una maggiore infedeltà fiscale dei cittadini e delle imprese. Il ragionamento della Lega è questo: i debiti dei cittadini e delle imprese verso l’Agenzia delle Entrate si aggirano intorno agli 800 miliardi di euro. Pur sfoltendo questa cifra dei crediti ormai inesigibili (persone decedute, imprese fallite, ecc.), si potrebbero recuperare subito una sessantina di miliardi, più o meno quanto costerebbe la tassa piatta al suo avvio (le previsioni più ottimistiche parlano di 40 miliardi nel primo anno, ma ci sono anche calcoli più catastrofici). In questo modo, si avrebbe, come dice il proverbio, «la botte piena e la moglie ubriaca»: si porterebbe a casa la riforma fiscale (magari addolcita, dilazionata) senza deviare i conti pubblici, come «chiede l’Europa» (e per gli anni successivi?).

Peccato che questa valutazione non tenga conto delle stime più attendibili (e più recenti) in tema di recupero all’erario di somme dovute dai contribuenti. La Corte dei Conti, ad esempio, ha stimato in solo 50 miliardi la base da cui recuperare un’eventuale extra-gettito. Tradotto: un condono generalizzato come quello proposto da Salvini potrebbe far recuperare allo Stato non più di 15 miliardi, nonostante le cartelle sotto i 100 mila euro costituiscano il 96% di quelle iscritte a ruolo.

Sarà anche per questo che il ministro Tria, nella stessa occasione, ha sottolineato che la lotta all’evasione è una precondizione per l’abbassamento della pressione fiscale (pagare meno, pagare tutti), capovolgendo la logica che, invece, aveva ispirato la dichiarazione del suo collega Salvini.

Il messaggio, però, è devastante, in un Paese dove l’evasione fiscale è stimata nell’ordine di 180 miliardi di euro all’anno (+4,7% a maggio, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente). Un bubbone che si annida soprattutto nelle dichiarazioni delle società di capitali, delle big company, delle banche e delle assicurazioni, oltre che, ovviamente, nell’economia sommersa e in quella criminale (che per una parte, però, entra nel Pil). Molto più a nord che a sud (portabandiera la Lombardia). L’evasione «di necessità» è solo una minima parte del totale: al primo posto ci sono industriali, bancari e assicurativi (il 64%). A seguire, ma molto distanziati, commercianti e artigiani, tra i quali, obiettivamente, anche quelli che «non ce la fanno più».

Prevarrà il messaggio di Tria o quello di Salvini? Certamente, in queste prime settimane il neo ministro dell’Interno una cosa la sta dimostrando: la sua idiosincrasia per concetti come «guerra alle mafie ed alla corruzione», «lotta all’evasione ed al lavoro nero».

Che poi, sono le vere emergenze del Paese. Insieme a disoccupazione e povertà.