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L’insidia della Striscia, una doppia trappola per Israele

foto Bombardamento israeliano su GazaBombardamento israeliano su Gaza – foto Fatima Shbair /Ap

Israele/Palestina La trappola di Hamas a Gaza è scattata una prima volta e può entrare in azione anche un seconda perché un’azione militare massiccia nella Striscia presenta rischi altissimi che vanno dalla popolazione civile, ai militari, agli ostaggi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 ottobre 2023

La trappola di Hamas a Gaza è scattata una prima volta e può entrare in azione anche un seconda perché un’azione militare massiccia nella Striscia presenta rischi altissimi che vanno dalla popolazione civile, ai militari, agli ostaggi. Gli esperti israeliani e internazionali ne sono convinti. Come sottolinea Sami Cohen professore a Science Po di Parigi e autore di molti libri sul Medio Oriente e Israele c’è stato un fallimento a due livelli, uno di intelligence, l’altro politico imputabile in gran parte a Netanyahu. Cohen è molto chiaro: i servizi di sicurezza interni, lo Shabak, fino qualche tempo erano ben informati su quanto accadeva a Gaza ma negli anni recenti hanno trascurato le fonti interne ad Hamas per affidarsi alla sorveglianza elettronica e ai “muri”. Un grave errore. Secondo fonti dell’intelligence italiana Hamas in questi anni non ha contato soltanto sul fattore armi ma sul training dei giovani militanti addestrati a fare contro-informazione. Dimenticate gli shabab che tirano le pietre esercitandosi sulle montagne di spazzatura a Jabalya. In poche parole i militanti dovevano far credere agli israeliani che non erano loro il vero obiettivo di Hamas ma l’Anp di Abu Mazen in Cisgiordania dove per altro il movimento nel 2006 aveva vinto le elezioni, oltre che nella Striscia di Gaza.

Ma il fallimento dell’intelligence non è stato casuale. Questi fallimenti derivano spesso da una narrativa politica e militare che distorce la realtà. Basti pensare alla Yom Kippur di 50 anni fa quando gli israeliani disponevano di tutte le informazioni possibili _ e persino della collaborazione di Ashraf Marwan, genero di Nasser come spia a fianco di Sadat – ma secondo la narrativa strategica dei vertici militari ritenevano l’Egitto troppo debole per attaccare.

Il trauma del 1973 è ancora molto vivo e il paragone con il Kippur è immediato perché questo attacco è arrivato proprio il giorno dopo l’anniversario. Stavolta però Israele non si trova a dover affrontare un esercito regolare com’era all’epoca quello egiziano. Deve fronteggiare gruppi di uomini disposti a tutto, armati soltanto di kalashnikov e lanciarazzi, che combattono una guerra di tipo diverso. Il Paese è sotto choc perché il fallimento militare e di intelligence è stato enorme. Soprattutto se si pensa che l’organismo di intelligence militare noto come “Unità 8200” sorveglia la vita dei palestinesi e che Israele controlla tutte le reti telefoniche fisse e mobili, è davvero incredibile che non si siano resi conto che stavano organizzando un assalto di questa portata. In questi anni Netanyahu ha sostenuto con insistenza che Hamas non costituisse un pericolo maggiore per Israele e che non era necessario mantenere una massiccia presenza di intelligence a Gaza. L’obiettivo di Netanyahu era dimostrare anche alla comunità internazionale che i palestinesi non costituivano più un problema per i suoi «piani di pace» perché erano troppo deboli e divisi tra Hamas e Al Fatah.

L’arroganza di Netanyahu sfiora la deriva criminale, secondo il noto giornalista israeliano Merovon Rapoport (Local Call e la rivista online +972 Magazine) che in un’intervista al sito Gariwo afferma: «L’esercito israeliano era ormai concentrato quasi tutto in Cisgiordania. Per proteggere i coloni e gli insediamenti erano stati dispiegati ben trentatré battaglioni mentre lungo la frontiera con Gaza ce n’erano soltanto tre». Vuol dire che lo stesso livello di addestramento dell’esercito non è più paragonabile a quello di una volta, perché negli ultimi vent’anni i soldati sono stati chiamati a svolgere quasi esclusivamente compiti di polizia, ad arrestare bambini o lanciatori di pietre nei villaggi. Si è quindi trovato impreparato a fronteggiare miliziani armati in un conflitto irregolare.

Ma è il dato politico, oltre quello di intelligence e securitario, quello più stringente. Il governo di Netanyahu è dominato – ora nel gabinetto di coalizione per la guerra entrano i militari – da estremisti religiosi ossessionati dagli insediamenti ebraici in Cisgiordania. E tutta questa attenzione è stata la sua rovina: per restare in sella, affrontare i guai giudiziari e dettare la divisiva campagna sulla giustizia aveva bisogno del sostegno di Smotrich e di Ben Gvir, i due “falchi” dell’estrema destra, e questo lo ha condotto insieme al Paese verso il baratro di Gaza. Come uscirne? Una conquista militare di Gaza via terra avrebbe un esito tutt’altro che certo, significherebbe la morte di decine di migliaia di abitanti, quella degli ostaggi e una grave crisi di rifugiati. Hamas non è un esercito, sono formazioni delocalizzate, da guerriglia e terrorismo. Inoltre ora palpabile è il rischio di una guerra regionale su larga scala, con il possibile coinvolgimento di Hezbollah in Libano e perfino della Siria.

Finora tutto ha tenuto grazie al patto tra Russia e Israele che consente allo Stato ebraico di bombardare in Siria i pasdaran iraniani alleati di Mosca e di Assad, come sanno bene tutti, da Teheran ad Ankara. L’unica alternativa al caos è la diplomazia, la ripresa dei negoziati per uno Stato palestinese senza passare attraverso le false e ormai improbabili scorciatoie delle monarchie del Golfo. Altrimenti scatterà la parte due della trappola.

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