L’«indicibile» normalità della nuova condizione di poveri
Di povertà e di lavoro povero, oggi che rileggiamo dell’addio a Barbara Ehrenreich -la saggista della sinistra americana che tanto ne ha scritto – , non dobbiamo smettere di parlare. «L’esperienza della povertà», come notava William Vollmann, «esprime paura e mancanza di speranza. Ne puoi parlare solo se non ci sei dentro. Si può essere poveri di qualcosa, di tutto.
Ma è forse per questo che i poveri non chiedono mai una “spiegazione” di tutto ciò cui devono fare fronte, come arguì Celine, semplicemente si odiano e odiano la loro condizione». La povertà è sempre esistita, ricordò Martin Luther King, la differenza è che oggi avremmo il modo per cancellarla per sempre. Eppure, la povertà è qui, con noi, presente come non mai, non accenna a diminuire, cambia faccia e forme, si estende tra classi e condizioni. Un tempo, nelle società avanzate, i poveri erano quelli «senza lavoro». Oggi non più, avere un lavoro non garantisce più l’assenza di povertà.
Quando pensiamo alla povertà ci vengono a mente i derelitti delle baraccopoli africane o, più vicini a noi, quelli che magari chiamiamo «zingari». Ma poveri sono anche le migliaia di homeless americani, come quelli che vediamo sui marciapiedi delle nostre strade, sotto i portici, negli androni, che dormono su cartoni avvolti in coperte fetide, che ignoriamo pur facendo in modo di non calpestarli. Quelli che poi vanno a mettersi in fila nei dispensari della Caritas o elemosinano per le nostre vie. Per i quali, il più delle volte, proviamo fastidio.
Se questa è la faccia sporca della povertà che conosciamo, ce n’è un’altra che ci sta lambendo, nella nostra società del benessere ormai avvizzito, che sta diventando «normale»: quella di chi, pur ricevendo un qualche salario magro, fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. I poveri sono una sotto-classe, ma tanto più sono invisibili, tanto meglio. «Come i morti», diceva ancora Vollmann, «li seppelliamo perché non emanino il loro disgustoso odore, così dobbiamo fare con i poveri: nasconderli».
È il «crimine senza criminali» del lavoro sotto-pagato che li rende invisibili, perché è il risultato di ciò che chiamiamo progresso.
Un tempo, ai figli delle classi popolari, veniva fatto credere che ottenuto il lavoro avrebbe superato quella condizione. Jack London li aveva avvertiti: «Il mondo, che pensavate di avere conquistato ottenendo un salario, vi verrà sottratto, noi ve lo porteremo via». Oggi il lavoro per migliaia dei nostri sfruttati è poco più che una condizione di sopravvivenza.
E l’odore d’urina e feci dei marciapiedi dietro alla stazione Termini a Roma, come a Milano, a Napoli – e come in cento città del mondo – ci viene dietro, inseguendoci fin dentro alle nostre fabbrichette, negli appartamenti sovraffollati di immigrati, nei retrobottega, nei depositi, nei piazzali della logistica, nel retro dei fast-food e dei nostri puzzolenti pub. Se solo ci avvicinassimo ai panni luridi di un derelitto sdraiato sul marciapiedi ne coglieremmo il ribrezzo, e nei suoi occhi rossi vedremmo solo il disprezzo e la rassegnazione.
Di cui ci parlano le «statistiche» ma che non vediamo, ne percepiamo solo l’olezzo sgradevole nei luoghi dove passiamo in fretta per non vedere. Ciò che sorprende dei numeri di cui ci parlano ormai costantemente l’Istat, l’Inps e l’Inail è la vastità del fenomeno. Non tutti i poveri vivono nella miseria più abietta, certo, ma non per questo la loro condizione è meno preoccupante. Ben 4 milioni di lavoratori dipendenti, in Italia, hanno una retribuzione inferiore ai mille euro lordi al mese. La povertà, secondo gli ultimi dati, interessa 5,6 milioni di persone ed è dovuta a salari bassissimi e condizioni di lavoro precario, instabile, o a pensioni «da fame».
Come afferma l’Istat, tale quadro retributivo conferma la scelta da parte di troppe imprese di una produzione basata prevalentemente sulla bassa qualità del prodotto e quindi sulla competizione di costo (del lavoro). Il bacino del lavoro povero (ai contratti a tempo determinato vanno sommati i part time involontari e un eccesso di inquadramenti nelle basse qualifiche) resta così molto alto.
Anche se i dati rilevano l’aumento dell’occupazione totale – enfatizzata dalle forze di governo – sono i giovani a pagare e sono gli occupati instabili e precari a crescere. I sussidi di tutti i tipi – incluso il reddito di cittadinanza – li hanno aiutati, certo, ma il numero dei lavoratori poveri rimane sempre altissimo per un’economia che si dice «avanzata». Nonostante, quindi, l’aumento registrato del Pil, il lavoro non tiene il passo e la sua remunerazione ne diverge.
È solo l’operare della legge della domanda e dell’offerta (l’alta disoccupazione che mantiene i salari bassi)? No. È la libertà data al capitalismo predatorio che non conosce freni, che frutta a suo vantaggio la flessibilità e che non protegge il lavoratore. Che paga così, sulla propria pelle, l’esproprio. Di cui è responsabile la politica, che al mercato ha lasciato l’arbitrio di stabilire i criteri di divisione della ricchezza. E quale economia, quale società vogliamo sta alla politica stabilirlo, non al mercato.
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