L’identità negata di una donna che spaventa
L’attivista curda Come per molti migranti, l’identificazione negativa si affianca alla non considerazione della storia personale. Rischia di essere estradata proprio dove ha combattuto l’oppressione
L’attivista curda Come per molti migranti, l’identificazione negativa si affianca alla non considerazione della storia personale. Rischia di essere estradata proprio dove ha combattuto l’oppressione
C’è una dimensione specifica dell’agire violento che contraddistingue il nostro mondo nei confronti di chi lascia i propri luoghi per un ‘altrove’ sperabilmente migliore, così preferendo l’incognita a ciò che pur noto non è però sopportabile. Una dimensione dell’agire che connota tutto il processo del migrare dopo il difficile abbandono del legame con affetti, ricordi, panorami, nelle traversie del percorso e nell’approdo in quel luogo che si rivela diverso dalle speranze, non accogliente e pronto a sollevare scudi e difese.
È la dimensione dell’anonimia, a cui spesso si dedica minore attenzione, soprattutto perché inserita in altre dimensioni connotate da una materialità densa di maltrattamenti, rifiuto, respingimenti.
Eppure è una dimensione fondamentale perché le persone migranti sono spesso materialmente e simbolicamente anonime; cessano di avere nomi perché assumono la fisionomia di casi, da regolare, gestire, respingere, rinchiudere o accogliere: pur sempre casi, se non, come spesso accade, numeri.
Nessuno conosce i nomi delle vittime di un naufragio né quelli da mettere sulle bare dei corpi raccolti; spesso neppure di coloro che una volta giunti sono privati della libertà personale perché il nome di una persona non è soltanto una etichetta posta su un fascicolo, ma un condensato di storia personale. Invece la complessiva identità di una persona migrante sparisce attraverso il percorso burocratico che subentra, con altrettante impervie vicissitudini, al percorso compiuto, con grande lentezza e con improvvisa subitaneità. Quest’ultima soprattutto quando si tratti di chiudere porte e di rinviare a un altrove diverso.
L’identità di una persona migrante è densa del suo progetto migratorio, così come della sua attività e della sua vita precedente: elementi materiali a cui si sommano le paure della partenza e le speranze del muoversi; soprattutto a cui si somma la poliedricità della propria esperienza personale vissuta e il suo non poterla più condurre in alcuni contesti.
Accade così che frettolosamente una persona possa essere identificata, sin dal suo primo approdo sul territorio – sul nostro territorio ormai ostile a chi arriva – come responsabile dell’organizzazione del viaggio, come «scafista», parola a cui ci siamo ormai abituati, magari per aver aiutato qualcuno durante il viaggio o perché qualcun altro voglia addebitare a terzi la sofferenza vissuta in quel pericoloso tragitto o voglia togliere da sé ogni sospetto. Succede.
Ho avuto modo di verificarlo con storie raccolte durante la mia prolungata esperienza di visite in carceri e centri per migranti, europei e italiani. Tutti casi in cui la densità della storia personale svanisce – anche un film di poco tempo fa ricordava come si possa divenire, forzati dalle circostanze, soggetti in una situazione di cui si è in realtà oggetti.
Questa identificazione negativa si affianca all’anonimia frutto di non considerazione del passato di una persona migrante.
Così avviene che la storia precedente non sia elemento di comprensione della pienezza della persona, bensì venga compressa nel suo essere contingentemente un caso, o ancor più un problema.
Così avviene che oggi sia in carcere Maysoon Majidi e che corra il rischio di rimanerci o addirittura di essere estradata proprio laddove la sua storia positiva si è costruita in opposizione all’oppressione.
Maysoon viene da una cultura e da un luogo che sono sinonimi di non riconoscimento perché è curda e tale identità porta con sé tutta l’oppressione che più Paesi hanno attuato, con modalità diverse ma convergenti, per annientare l’identificarsi con quella regione che non ritroviamo nell’atlante geografico, il Kurdistan, ma che appartiene a tradizioni, lingua, storia, quantunque frantumata in più realtà statuali odierne.
È figlia, quindi, di una identità non riconosciuta, se non in termini negativi: un’identità che fa paura a chi vede nella pluralità un pericolo e nell’oppressione una rassicurante uniformità.
Maysoon viene anche da un contesto attuale, iraniano, che l’ha vista protagonista dell’affermazione femminile del diritto alla pienezza del proprio esistere, ancor più rivendicato dopo che l’oppressione a tale pienezza ha palesemente assunto la fisionomia dell’oppressione violenta.
Come donna e come donna attivamente promotrice della consapevolezza dei propri diritti fa doppiamente paura a regimi teocratici che piegano i diritti a concessioni maschili.
Non solo, ma Maysoon viene con la capacità riconosciuta di trasferire la propria identità e la propria lotta per il diritto alla piena esistenza in forme comunicative in grado di far conoscere ed espandere il desiderio di vita che la sua storia esprime: è artista e l’arte è implicitamente fonte di timore per ogni potere dittatoriale, a meno che non si pieghi alle forme della propaganda.
Donna, curda, attiva nella difesa dei diritti di ogni persona, artista. Un concentrato di timori. Ma anche una identità negata nel nostro Paese che, dichiarandosi democratico ed essendolo nel suo essersi ritrovato e riconosciuto nella Carta costituzionale più di settantacinque anni fa, dovrebbe portare a valore proprio tali elementi.
Invece è stata risucchiata dall’anonimia colpevolizzante: è divenuta un caso, un caso penale.
Mentre scrivo queste righe penso che presto ci sarà un giudice a pronunciarsi: vedo il rischio e confido nella ragionevolezza. Ma vedo soprattutto il non riconoscimento della sua storia – che lei ha raccontato anche indicando i passi che costituiscono la sua difesa.
Non sono questi passi gli elementi per me più importanti, perché mi preme la considerazione della pienezza della sua persona, della sua origine, della sua lotta come donna, della sua capacità di parlare con il gesto e con l’arte.
Mi preme che siano riconosciuti e che non si debba tornare anche nel suo caso a quei versi dell’Eneide, quando Ilioneo si rivolge alla regina Didone dicendo: «Ma che gente è la tua? Che barbaro costume ci impedisce di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia? Perché farci guerra?».
Viene da lontano il problema della non accoglienza e della paura.
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