Pensarlo oggi sembra incredibile, ma l’Italia è stato il terzo paese al mondo, dopo Germania e Svezia, a tutelare l’identità delle persone transgender. Adesso, mentre il resto del mondo continua a correre sui diritti, noi siamo rimasti fermi.
La prima legge di riferimento è la 164 del 1982, nata «negli anni d’oro dei diritti in Italia, quando la sensibilità era tale da concepire delle norme che fossero all’avanguardia persino rispetto a quelle svedesi», racconta l’avvocato Alexander Schuster, specializzato in diritti della comunità Lgbt+.

Oggetto di una lunga contrattazione, la legge italiana – la prima nel mondo senza requisiti d’età – era nata per consentire a chi si fosse già sottoposto a interventi chirurgici di riattribuzione del sesso di ottenere la modifica del genere sui documenti.

Sebbene la legge non lo richiedesse in modo inequivocabile, divenne prassi l’obbligo di sottoporsi a un intervento medico-chirurgico, con conseguente sterilizzazione, per poter essere riconosciuti legalmente.

Tre anni dopo la definizione «identità di genere» faceva la sua prima, seppur parziale, comparsa nell’ordinamento italiano. Nella sentenza 161 del 1985 della Corte Costituzionale si definiva «transessuale» il soggetto che «sente in modo profondo di appartenere all’altro sesso (o genere)». Ritornerà anni dopo, nel 2004, nella legislazione regionale della Toscana, che menziona espressamente l’identità di genere tra i fattori di discriminazione su cui intervenire. Anche l’ordinamento penitenziario, dopo la riforma del 2018, all’articolo 1 impegna a un trattamento rispettoso della dignità della persona, senza discriminazioni per la sua identità di genere.

Il termine era anche contenuto nella proposta di legge Zan, del 2021, pensata per estendere il reato di crimini d’odio anche alle discriminazioni sulla sfera sessuale, ma il progetto è naufragato anche e soprattutto sul mancato accordo nell’includere il concetto di identità di genere.

A livello europeo il diritto a non essere discriminati per la proprio identità di genere è riconosciuto da una sentenza del 1996 della Corte di giustizia europea e da una serie di successive risoluzioni dell’europarlamento, come quelle del 2011 e del 2014. Si tratta però di decisioni non vincolanti per gli Stati membri, che adottano criteri discordanti.

In sette paesi Ue – tra cui Belgio, Danimarca, Portogallo e Spagna – vige un modello semplificato per la modifica del sesso sui documenti, basato sull’autodeterminazione, per cui è sufficiente attestare un collegamento stabile con il genere di identificazione.

In Italia un primo cambiamento nell’interpretazione giurisprudenziale della legge del 1982 arriva, invece, solo nel 2013, quando il clamore mediatico di una sentenza del tribunale di Rovereto – che aveva concesso la rettifica del genere all’anagrafe a una donna non operata – innesca un effetto domino.

«Mi ricordo che dieci anni fa, in uno dei miei primi casi, la giudice decise di ricorrere alla prassi antecedente al caso Rovereto: una lunga lista di quesiti rivolti a psichiatra, ginecologo e andrologo e la disposizione che la persona oggetto di “indagine” dovesse dormire con indosso uno strumento che ne verificasse la persistenza di funzione erettile», racconta Schuster. Nel 2015 – in anticipo di due anni rispetto alla Corte europea di Strasburgo – le sentenze della Corte Costituzionale confermano che il cambio dei documenti può avvenire anche sulla base dei caratteri sessuali secondari e di una valutazione complessiva della persona, ribadendo, però, la necessità di un accertamento rigoroso «dell’univocità dell’intento».

Oggi in Italia per le persone che intendono chiedere la rettifica anagrafica rimane formalmente l’obbligo di seguire una serie di protocolli, come le sedute psicoterapeutiche e le terapie ormonali.

In sei paesi – come Malta, Austria o Germania – sono invece previste disposizioni che consentono al soggetto di non identificarsi in un genere definito. «Le nuove generazioni sono molto sensibili alla necessità di non sentirsi obbligate a incasellarsi in un genere – continua l’avvocato – Eppure in Italia non solo non c’è una legge in merito, ma non stiamo nemmeno affrontando il dibattito».