Una sentenza di un giudice federale della Louisiana ha diffidato l’amministrazione Biden dall’influenzare o comunicare con le piattaforme social nel tentativo di inibire, limitare o modificarne i contenuti. Il giudice Terry Doughty ha specificato che il divieto è applicabile in particolare al personale del Fbi e del ministero della Salute. La decisione ha rappresentato una vittoria per la destra secondo cui la Casa bianca avrebbe coordinato con i canali di Silicon Valley una vasta operazione per censurare punti di vista conservatori. La tesi è avanzata da mesi da Donald Trump e dai repubblicani di area Maga che sono giunti ad istituire una commissione di inchiesta parlamentare – la “weaponization of government commission” – per fare chiarezza sul presunto disegno censorio di Biden. In particolare, questo sarebbe comprovato dai documentati contatti fra esponenti dell’amministrazione e piattaforme come Twitter e Facebook, allo scopo di segnalare la disinformazione dilagante soprattutto durante la campagna vaccinale nelle fasi calde della pandemia.

LE NOTIZIE FALSE che fioccarono nell’arcipelago complottista no-vax erano viste come un principale ostacolo alle operazioni vaccinali, da cui la richiesta del governo di limitarne la diffusione. Agli occhi della destra questa è da sempre percepito come una congiura fra amministrazione democratica, mainstream mediatico e settori liberal di Silicon Valley, per zittire legittimo dissenso. Per la Casa bianca si trattava anche di arginare il fiume in piena di “notizie” false e tendenziose scatenato dalla precedente amministrazione Trump, che nei fatti alternativi e nel sistematico offuscamento aveva avuto principali strumenti politici. L’ordine del giudice conservatore vieta ora ogni ulteriore pressione per «indurre in modo alcuno» le piattaforme «a rimuovere, cancellare, sopprimere o ridurre contenuti contenenti pensiero libero e protetto».

Il riferimento è dunque al primo emendamento della costituzione americana che garantisce la libertà di espressione e rappresenta un’inviolabile dottrina. Nella “nebbia epistemica” precipitata dalla saturazione del fake, l’invocazione della libera parola viene però spesso impiegata anche come cortina fumogena per manipolare strumentalmente la percezione delle cose e distorcere il dibattito politico. È un grimaldello prediletto dall’area conservatrice che ha utilizzato lo stesso argomento per sdoganare la dottrina religiosa nell’insegnamento, reclamando, ad esempio, la par condicio per il creazionismo nelle scuole come teoria «legittima ed uguale» a quella dell’evoluzione.

L’ATTUALE POLEMICA è in gran parte basata sul dissenso antiscientifico della fazione anti-vaccini che si considera latrice di una lotta contro la liberticida «dittatura sanitaria», ma è stata anche fatta propria almeno da un dirigente social. Dopo la sua controversa acquisizione di Twitter, lo stesso Elon Musk ha infatti affidato a giornalisti, fra cui Matt Taibbi, una voluminosa documentazione relativa ai contatti fra governo federale e la precedente direzione del suo canale. Lo scopo dichiarato è stato quello di intraprendere un’inchiesta giornalistica sulla presunta collusione ai danni degli opinionisti di destra (la tesi amplificata anche da Trump, specialmente dopo la sua sospensione da Facebook e Twitter).

L’inchiesta pilotata da Musk è stata pubblicata a varie riprese da Rolling Stone ed altre pubblicazioni, Taibbi è stato invitato ad esporre la tesi della congiura liberal ai danni dei repubblicani davanti alla commissione parlamentare che ha convocato anche diversi direttori di social. Malgrado le “rivelazioni” però, le inchieste sembrano esporre più che altro la difficoltà di moderazione di piattaforme diventate – in modo naturale o strumentale – grandi casse di risonanza per una disinformazione dagli evidenti effetti nocivi.

È SIGNIFICATIVO a questo riguardo il divario che emerge fra vecchio e nuovo continente in tema di normativa. L’Unione europea ha introdotto il Digital Services Act che oltre a robuste protezioni della privacy contiene specifiche norme contro la disinformazione. Negli Stati uniti invece non solo vige il più rigoroso laissez-faire per i colossi di Silicon Valley, ma una sentenza come quella di questa settimana si prefigge di limitare ulteriormente «l’ingerenza» normativa dello stato nella materia. Non sorprende dunque una decisione come quella di Meta (casa madre di Facebook e Instagram, e già oggetto a maggio di una pesante sanzione europea per violazione di privacy), di non rilasciare per ora in Europa la nuova app Threads. Per gli Stati uniti, invece, la sentenza (che potrà comunque essere contestata in appello) allontana ulteriormente una soluzione funzionale alla questione della disinformazione virale. Al di là del merito specifico la sentenza è indicativa di come lo scontro politico americano sia sempre più delocalizzato verso magistratura e spazio digitale.