Vincenzo De Luca e Elly Schlein. Il Pd di ieri e quello (forse) di domani. Sono loro i protagonisti del comizio di chiusura del Pd a piazza del Popolo, la stessa dove un giorno prima Meloni si era consacrata leader delle destre.

UNA PIAZZA MENO PIENA e più depressa, quella dei dem, l’umore come un pendolo tra preoccupazione e vero sconforto. Ci pensa il governatore della Campania, in forma come il suo sosia di Crozza, a strappare qualche sorriso: «Giovedì qui abbiamo visto una sagra burina: c’era un esemplare allevato nelle praterie padane, un fresco sposo di 86 anni un po’ barzotto e poi è apparsa una figura vestita di bianco, da prima comunione. Un’immagine incantevole, ma appena ha cominciato a parlare l’incanto è svanito ed è comparsa la sora Cecioni».

E ancora, su Conte: «Gira per i quartieri del sud come un turista svedese, come se non avesse fatto il premier per tre anni, rivuole la sua verginità politica, non si è alleato con noi altrimenti non avrebbe potuto dire in giro le fesserie che dice». Infine, rivolto a Letta: «Non mi sento dire che abbiamo un segretario scoppiettante e pirotecnico. Ma offriamo dirigenti di grande competenza e onestà.

DOPO TANTI ALTRI INTERVENTI, tutto lo stato maggiore dalle capigruppo ai governatori ai ministri ai vicesegretari, arriva Schlein, definita dal Guardian «la Ocasio Cortez italiana»: parla prima di Letta, un posto di grande rilievo che prefigura un ruolo chiave dopo il voto. E spiazza tutti, facendo il controcanto al celebre motto di Meloni: «Sono una donna, amo un’altra donna, non sono madre, ma non sono meno donna».

Una sfida diretta, mettendo in piazza il privato che ha sempre tenuto fuori dalla lotta politica, alla retorica Dio-Patria-Famiglia delle destre. «Non basta essere donne per aiutare le alte donne». E non si ferma: «Lo sappiamo cosa c’è di la, c’è Orban che dice che non bisogna mescolarci e invece noi vogliamo mescolarci». Senza giri di parole, Schlein mostra le due Italie che si sfidano nelle urne, rosso o nero come la campagna Pd, e si candida come anti-Meloni.

LETTA ARRIVA COL SUO BUS elettrico, suonano le note della Canzone popolare di Fossati, colonna sonora della vittoria di Prodi nel 1996. Meglio evitare paragoni tra le due piazze. Sale sul palco per ultimo, dietro di lui ha voluto tutto lo stato maggiore in piedi: un modo per dire che, nella buona e nella cattiva sorte, questa è la partita di tutto il Pd, che ha votato le sue scelte (come quella di non volere alleanze col M5S) all’unanimità. Un modo per dire che lui non ci starà a fare il capro espiatorio.

«Non permetteremo che la destra stravolga la Costituzione nata dall’antifascismo, la più bella del mondo», alza la voce. E ancora: «La rimonta è figlia del fatto che il Pd ha la migliore classe politica nei territori». Attacca Meloni che proprio su questo palco aveva detto «mai più chiusure anti-Covid»: «Parole intollerabili».

ANCHE SPERANZA VA GIÙ duro: «Meloni sei irresponsabile, il modello Italia ha difeso la vita delle persone mentre voi pensavate a inseguire quattro voti». Così sui diritti: «La destra vuole un’Italia retrograda, noi vogliamo dare libertà alle persone», dice Letta, che rivendica di aver parlato in tutta la campagna «dell’Italia del futuro», dal salario minimo alle battaglie per l’ambiente. Chiude con un tonante «Viva l’Europa» e una citazione dello scomparso David Sassoli, «la speranza siamo noi quando non alziamo muri e combattiamo le ingiustizie». Trova anche la forza di un ultimo: «Andiamo a vincere».

CHIUDE SULLE NOTE DI «Live is life», i dirigenti si abbracciano e scattano selfie, un po’ di tensione si scioglie, sul palco salgono un paio di bimbi, Andrea Orlando alza il pugno chiuso, poco prima aveva detto: «Nessuno più deve essere sfruttato o sottopagato, non dobbiamo solo governare bene ma costruire una società diversa e più umana». Franceschini, scuro in volto, evoca il prossimo 25 aprile: «Meloni ha detto che questa data non si festeggia perché gli italiani si sono ammazzati tra loro, e dunque non andrà mai in piazza il 25 aprile: non se la sente di rinnegare le sue radici. Ma non passeranno».

Il ministro della Difesa Guerini, di ritorno da Kiev, racconta la devastazione, ma la piazza è gelida: la solidarietà a Zelensky non scalda. Provenzano ricorda Peppino Impastato e la lotta alle mafie «dimenticata dalle destre». Nicola Zingaretti dice che «è il tempo di combattere». L’emiliano Bonaccini sprona la truppa: «Cerchiamo di convincere gli indecisi spiegando che noi non siamo migliori, ma molto più affidabili di queste destre».

DIETRO LE QUINTE I DIRIGENTI compulsano i sondaggi sui cellulari: i numeri ballano, il 20% è la soglia psicologica per sopravvivere, sotto è l’implosione del Pd. Tutti chiedono notizie a Michele Emiliano e Francesco Boccia: in Puglia la partita nei collegi sembra più aperta grazie alla crescita del M5S. «Il sud ha una intelligenza feroce che lo rende intuitivo davanti ai pericoli», confessa Emiliano, che continua a chiedersi perché sia saltata l’alleanza con Conte. Sospira: «Da noi avremmo vinto in tutti i collegi, M5S avrebbe preso qualche voto in meno, ma, come diceva Totò, è la somma che fa il totale…».