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L’età berlusconiana ribaltata in un vuoto irreparabile

L’età berlusconiana ribaltata in un vuoto irreparabileMatteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi durante la chiusura della campagna elettorale nel settembre 2022 – Ap

Asceso in campo Lo sgomento che si è diffuso tra le sue file non nasce solo da affetto e fedeltà al capo, ma dal rischio di crollo di una creatura personale che non può sopravvivere

Pubblicato più di un anno faEdizione del 13 giugno 2023

Una decina di anni fa, in un libriccino malizioso scritto di getto mi domandavo se Berlusconi sarebbe passato – come lui ambiva – alla storia. Certo la sua fama, celebrata in anticipo da un mausoleo domestico, non sarebbe stata imperitura come quella di un faraone egiziano, garantita da una monumentale piramide, e neppure come quella di Napoleone, il cui nome era corso come un fulmine dal Manzanarre al Reno. Ma altrettanto sicuramente avrebbe potuto intestarsi un’epoca della storia d’Italia, in altri termini dare il titolo a un capitolo o almeno a un paragrafo dei futuri manuali scolastici.

IL MODELLO POPULISTA. A distanza di poco più di un decennio e al compimento dell’ultimo atto, questo assunto si può confermare. Anzi, si è rafforzato. Non solo per la sua longevità politica, che ha allungato la sua ombra su quasi un trentennio, e che in Italia è da poco approdata all’ultimo, in un certo senso l’estremo, dei suoi esiti. Ma perché il modello politico da lui inaugurato, perfezionato e applicato con dovizia di mezzi, è stato replicato con varianti in Italia e in Occidente. È insomma diventato un trend internazionale. Per quanto alcuni fedelissimi di un tempo si siano affannati a dimostrare pudicamente il contrario, non c’è chi non veda le potenti somiglianze – naturalmente mutatis mutandis – tra il suo profilo politico e quello di Trump: il linguaggio demagogico, le bugie spudorate imposte a furor di popolo, la propensione all’uso privato delle istituzioni, la tentazione del vittimismo spinto agli appelli eversivi contro sentenze a suo sfavore. Esiterei invece a parlare di modernità, considerata la natura arcaica, eminentemente tribale, del rapporto tra capo e seguaci (rituali di sottomissione, forme di divinizzazione, identificazione tra partito e sua presenza corporea).

I PRECEDENTI. Naturalmente Berlusconi non era stato il primo ad applicare quel modello che per brevità è stato chiamato populista e che aveva avuto precedenti significativi in Italia e nel mondo. Ma era il primo ad avere avuto un successo tanto solido e duraturo nel cuore di una democrazia occidentale. Nell’Italia di fine secolo a precederlo era stata in realtà la Lega Nord: una forza politica nuova per stile, linguaggio, insediamento sociale, tematiche. Estranea alla tradizione politica dell’Italia repubblicana, la Lega si era affidata a un leader, Umberto Bossi, che aveva la pretesa di avvicinare la politica alla gente comune grazie all’uso di modi plebei, interpretando gli umori antistatuali, antifiscali e antimeridionali dell’intraprendente ceto medio padano. Aveva conquistato molti seguaci ma era rimasto un partito di opposizione a insediamento nordista.

LA VECCHIA POLITICA IN CRISI. Berlusconi andò oltre. Ma chi era allora, nei primi anni Novanta, il nuovo protagonista di quello che lui chiamava spregiativamente «teatrino della politica»? Era uno spregiudicato imprenditore il quale, con mezzi leciti e illeciti, aveva conquistato una posizione dominante nella Tv commerciale a colori in concorrenza con la Tv pubblica. Grazie alla Tv esercitava una grande influenza sul largo pubblico assecondandone i gusti. Anche lui come Bossi puntava a lucrare sul discredito dei partiti e si proponeva come outsider che aveva dimostrato il suo talento fuori dalla politica ma era disposto a sacrificarsi per il bene comune. Anche lui adottò un linguaggio semplificato, attento ai miti e alle passioni di massa come il calcio. Fondò un suo partito personale di impianto aziendale che chiamò Forza Italia, come il grido di sostegno verso la squadra nazionale nelle competizioni internazionali. Proclamò di voler combattere le ideologie livellatrici che mortificano il merito, di voler costruire una società liberata dall’oppressione fiscale e dalla burocrazia. Apparve come il Messia dell’era televisiva.

IL SUCCESSO. Il successo del suo disegno fu dovuto non solo ai suoi smisurati mezzi mediatici, alla sua abilità e alla sua spregiudicatezza di televenditore, ma alla crisi già in atto del sistema politico e dei vecchi partiti che ne erano stati il pilastro. L’implosione del sistema comunista tra 1989 e 1991 aveva segnato la crisi dei partiti con la falce e martello in Occidente, anche quelli – come l’italiano – che si erano ampiamente distaccati dall’osservanza sovietica, la cui base sociale era stata disgregata ed erosa dai potenti processi di globalizzazione. Contemporaneamente aveva reso superflua la funzione della Dc – già logorata dalla lunga gestione del potere – come baluardo dell’Occidente. Il ceto politico nel suo insieme venne fortemente destabilizzato dai processi per corruzione. Berlusconi gli diede il colpo di grazia: accreditò il Movimento sociale italiano (Msi) erede di Mussolini, fin lì escluso dal potere, come forza pienamente legittima, si propose come erede della Dc e rinvigorì l’anticomunismo sempreverde come bandiera unificante. Inoltre annunciò una battaglia frontale per ridurre le tasse come aveva fatto la Lega, permise all’uomo-massa di specchiarsi in lui, promise all’uomo medio di poter continuare a bearsi nella sua mediocrità e a farsi i suoi affari senza essere disturbato dallo Stato.

La rivista “Una storia italiana” inviata in tutte le case del Paese nel 2001

IL REGIME. Su queste basi, Berlusconi vince le elezioni per la prima volta nel 1994 ed è capo del governo quattro volte per quasi dieci anni complessivi, malgrado tracolli, scandali, processi e condanne penali. Una volta al potere, si comporta come la lussuriosa regina Semiramide, che «libito fé licito in sua legge»: usa le istituzioni come cosa privata, i suoi avvocati come parlamentari, il parlamento come cassa di certificazione delle sue invenzioni alla Totò. La più clamorosa: quella secondo cui aveva pensato che una giovane marocchina minorenne nelle sue grazie (ma temporaneamente nelle mani di una questura, accusata di furto) fosse nientemeno che la nipote di Mubarak, il capo di stato egiziano. Non si può dire che quello da lui costruito fosse un regime totalitario (semmai un sultanato, come lo definì Giovanni Sartori), ma certo la sua presenza sulla scena è stata totalizzante: onnipresente nei media (a cominciare dalle sue Tv), ossequiato dai suoi beniamini che erano anche beniamini del pubblico, dai suoi campioni che erano gli idoli del pubblico, circondato dalla riverenza servile di molti. Le sue parole d’ordine, a cominciare da «scendere in campo» o «mettere le mani nelle tasche degli italiani» si sono imposte come formule di uso comune.

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L’EREDITÀ. Nel 2011, sotto la pressione di un’imponente crisi del debito pubblico, dovette lasciare il governo, ma non uscì di scena. Altri populismi diversamente connotati e ispirati sono entrati in azione, improntati all’anonimato qualunquistico dell’era digitale. La sua propensione antipolitica e plebiscitaria ha continuato a dominare. Il vento di destra che lui aveva sollevato ha continuato a spirare, anche se il nemico non erano più i comunisti immaginati ma gli invasori stranieri in arrivo dall’Africa. Lui stesso, pur indebolito nel fisico e nei consensi, ha avuto l’impudenza di avanzare la sua candidatura alla presidenza della Repubblica, di insidiare con comportamenti bizzosi il primato della giovane rivale Meloni che lo aveva superato nel consenso, di sfidare l’ondata di esecrazione per l’aggressione contro l’Ucraina esibendo spudoratamente la sua antica amicizia personale col despota russo.

FLAGELLI. Frattanto, nell’imperversare di nuovi flagelli internazionali come le pandemie e le guerre suscitatrici di fantasmi complottisti, nell’orizzonte di incertezze sempre maggiori e nel crescere delle diseguaglianze, le democrazie illiberali hanno dovunque guadagnato terreno. In Italia la sinistra, in crisi di idee e incapace di riconquistare l’identità perduta, ha continuato a perdere terreno. Le ultime elezioni hanno riportato al potere la coalizione che lui aveva inventato ma in un inedito bilanciamento di forze: al vertice la destra sovranista erede del neofascismo, a seguire la xenofobia leghista sostenuta dall’annuncio di opere faraoniche, fanalino di coda la forza politica che lui aveva creato dal nulla, ridotta ai minimi termini e allo scontro di piccoli clan rivali in tensione tra famiglia, azienda e partito. La sua presenza debordante di padre padrone ha impedito qualunque ricambio nelle sue file ed è ora destinata a ribaltarsi in un vuoto irreparabile, invano scongiurato – nell’ora del cedimento – dalle manovre esorcistiche attorno al suo corpo insidiato. Lo sgomento che si è diffuso al loro interno non nasce solo da affetto e fedeltà al capo, ma dal rischio di crollo di una creatura personale che non può sopravvivere senza di lui.

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