«Nulla ci fermerà e andremo avanti fino alla vittoria», ha sentenziato Netanyahu, davanti a una Casa bianca che prova a tirare i freni, con Biden che parla di «bombardamenti indiscriminati». Il problema è che la «dottrina Amalek» stenta a portare i segni della vittoria.

È la citazione biblica dello sterminio degli amaleciti che il premier israeliano ha fatto all’annuncio l’offensiva militare nella striscia di Gaza. Certo procede la distruzione di Gaza, fra sofferenze immani e continue violazioni del diritto umanitario bellico. Certo il ministro della difesa israeliano parla di «vittoria del mondo libero guidato dagli Stati uniti».

MA BIDEN precipita nei sondaggi, la diplomazia americana è sempre più in difficoltà nel fermare la richiesta di cessate il fuoco che sale dall’Onu. E soprattutto, mentre si cerca una nuova «pausa umanitaria», Israele deve affannarsi nel mostrare indizi di successo militare: nel mezzo della catastrofe umanitaria le brigate Qassam non paiono sconfitte. Controllano gli ostaggi e quotidianamente rilasciano video di propaganda che documentano le azioni di combattimento urbano, mentre i loro portavoce contestano la narrazione diffusa dalla difesa israeliana.

Ciò che filtra della realtà dei combattimenti – fra imboscate complesse, notizie di potenziali crimini di guerra e ostaggi che l’esercito uccide per errore – sembra corroborare l’ipotesi di una resistenza militare ampiamente sottovalutata, e che dà prova di capacità tattiche avanzate. Mentre continua la guerra mediatica sui «tunnel di Hamas», ufficialmente Israele ammette 130 caduti, anche se circolano numeri di militari feriti che, se paragonati ad altre campagne di guerra, sembrano fuori proporzione.

In questo scenario, mentre l’idea stessa di vittoria inizia a essere interrogata, la leadership israeliana cerca un evento che possa presentare come vittoria tattica: presumibilmente la cattura o l’uccisione dei leader militari di Hamas, Yahia Sinwar e Mohammed Deif. Tuttavia, come ha scritto Jeremy Scahill su the Intercept – l’idea che questo evento ponga fine alle capacità militari di Hamas «tradisce uno schema di wishful thinking che ha permeato il pensiero strategico americano sin dal 9/11».

Peggio ancora, come rilevato in un recente editoriale di The Nation, la resistenza di Hamas oggi raccoglie segnali incoraggianti sul versante politico, a partire da come, attorno all’escalation bellica, va riconfigurandosi il quadro locale, macroregionale e internazionale.

Come valutare, questi sviluppi, se dovessero trovare conferma nelle prossime settimane? La questione israelo-palestinese è da sempre qualcosa di paradigmatico per chi, sul versante progressista, si batte per le ragioni della giustizia e della pace. Attorno alla fase di guerra iniziata con gli attacchi del 7 ottobre e proseguita con la distruzione di Gaza si sono spalancati dibattiti, nei quali sono emerse, anche a sinistra, ambiguità, tensioni e contraddizioni su temi cruciali come nazionalismo, islamismo, militarismo, imperialismo.

Ritengo che l’atteggiamento apologetico rispetto ad Hamas che talvolta appare nel dibattito sia problematico politicamente, ovvero oltre il piano morale, quello delle violenze sui civili del 7 ottobre, perché attribuisce alla formazione islamista il ruolo di forza politica-chiave. Certo, gli eventi di guerra ci dicono (ancora una volta) quanto si rivela illusoria la retorica della vittoria militare, ed importante la via politica; ma non si può omettere come Hamas non sia solo generica «resistenza a Israele», ma un attore politico che persegue obiettivi specifici, la cui natura, quando non reazionaria, è fortemente conservatrice.

ELIDERE o indagare a fondo, per come è andata crescendo finora, questa connotazione politica (su cui insisteva Edward Said) nel nome di un generico supporto della «resistenza» significa ridurre i palestinesi a forza che reagisce, ormai incapaci di fare scelte politiche. Gli obiettivi di Hamas vivono oggi nell’alleanza con il regime iraniano, lo stesso regime che impicca gli attivisti e perseguita le donne.

Non è per distanziarsi dalla causa palestinese che il pubblico nello stadio di Teheran ne ha fischiato la bandiera, che all’indomani del 7 ottobre era stata portata a centro campo dagli araldi del regime: il pubblico iraniano capisce a fondo la strumentalità di tale esibizione. Peraltro, l’ultima adozione strumentale, in una lunga serie storica di sponsorizzazioni della liberazione palestinese, poi regolarmente tradite nel sangue.

Quando è stato che la sinistra ha adottato l’idea che la politica internazionale sia meramente calcolo geopolitico, callosa manipolazione d’interessi che obbedisce alle ragioni della forza, abbandonando l’internazionalismo e la prassi pacifista?

Resistere ai cliché orientalisti, che rappresentano gli arabi come barbari premoderni e Israele come una moderna liberaldemocrazia, non implica, in ragione di presunti allineamenti che sfidano l’ordine retto dagli Stati uniti, abbracciare o comunque attenuare il giudizio su soggetti e regimi militari autoritari, che opprimono minoranze e massacrano dissidenti.

Allo stesso modo, la critica della retorica della vittoria adottata da gran parte dell’Occidente all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina non porta con sé compiacimento nel vedere Putin resistere alla controffensiva ucraina, su cataste di cadaveri, annunciando un anno 2024 ancor più sanguinoso lungo le linee del fronte.

A meno di non voler adottare lo stesso schema narrativo fatto proprio dalla destra israeliana, la stessa storia dell’occupazione di Israele della terra dei palestinesi non può essere ridotta al solo schema dell’insediamento coloniale, riducendo ad unum una moltitudine di storie.

IL TEMA è scivoloso e non affrontabile in questa sede, ma credo sia necessario ricordare come ci sia un prezzo politico molto alto da pagare perché la risposta alla crescente islamofobia (che paradossalmente ha trovato riverbero anche in quella parte di sinistra che demonizzò il tentativo di rivoluzione contro Assad) oggi trascolori nell’adozione, magari sotto la scusante del tumultuoso incedere della Storia, della politica reazionaria di formazioni islamiste come Hamas quale forza che si oppone all’egemonia imperiale occidentale. I militanti di sinistra nei paesi nordafricani hanno ben chiaro il principio di distinzione fra la loro agenda, l’agenda delle forze di progresso, e quelle islamiste.

Le grandi differenze che esistono fra formazioni islamiste non dovrebbero impedire di vedere come il loro sviluppo corrisponda all’ascesa di un’ideologia d’ordine, e sia da leggere non solo come risposta conservatrice, talvolta reazionaria, su questioni di genere, sessualità e famiglia, ma come processo che si situa all’intersezione fra il dilagare delle politiche neoliberali e l’arretramento delle formazioni di sinistra.

Da ultimo, a meno di non obliterare la centralità delle lotte sociali e un minimo di teoria del cambiamento sociale, confondere la liberazione degli oppressi con il sostegno a formazioni (para)militari autoritarie e feroci dittature porta a perdere la messa fuoco sulle trasformazioni del capitalismo globale e di come si presentano oggi classe e conflitto sociale.