Leone Èfrati era una giovane promessa della boxe italiana: nel 1938 arrivò a un passo dal titolo mondiale negli Stati Uniti, ma nel nostro Paese il suo nome è stato dimenticato perché cancellato all’epoca dagli annuari sportivi fascisti e dai giornali in quanto ebreo. Dopo quell’esperienza ornò a Roma per stare vicino alla famiglia negli anni delle leggi razziali, ma fu consegnato ai nazisti e deportato. Subito prima di essere catturato, nel 1944, si era avvicinato alla Resistenza, in particolare alla brigata Vespri, quella che collaborò alla liberazione di Pertini e Saragat da Regina Coeli, ma fu arrestato prima di poter entrare in azione.

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Ad Auschwitz fu costretto dagli aguzzini a combattere con pugili molto più pesanti di lui e fu ucciso per aver cercato di difendere il fratello. La sua storia si chiude con l’incredibile sorpresa al processo del 1947, in cui la testimonianza del figlio di Leone, di soli sette anni, consentì di condannare i cacciatori di ebrei che avevano fatto arrestare il padre.

La sua storia rivive ora nel libro «La piuma del ghetto. Leone Èfrati, dalla gloria al campo di sterminio» pubblicato da Gallucci (pp. 304, euro 14,50) di Antonello Capurso giornalista, scrittore e autore teatrale che alla vicenda del pugile ha dedicato anche uno spettacolo prodotto dalla Fondazione Museo della Shoah.