Dévora Kestel, la direttrice del Dipartimento di Salute mentale e Abuso di sostanze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarà oggi a Trieste, nel Roseto del Parco di San Giovanni, ospite d’onore del convegno promosso dall’associazione «Copersamm Conferenza permanente per la Salute mentale nel mondo Franco Basaglia», e dedicato a Franco Rotelli, uno dei protagonisti della riforma che negli anni Settanta chiuse i manicomi e che in questi giorni compie 45 anni.

Come si posiziona l’Italia nel panorama mondiale e in quello europeo sul tema della salute mentale?

Non esiste una classifica mondiale o europea, stilata su parametri precisi, riguardante questo tema. Un elemento che possiamo prendere in considerazioni è il superamento degli ospedali psichiatrici, cosa che l’Italia ha fatto da tanti anni. Ci sono istituzioni comunitarie che oltre al trattamento strettamente medico pongono l’attenzione anche su altri bisogni delle persone con disturbi mentali, come la casa o il lavoro. E sicuramente l’Italia ha fatto enormi progressi e sforzi in questo senso. In questo Paese, dove sono appena arrivata, ci sono esperienze sicuramente molto ricche, come Trieste e la sua regione, considerate esempi positivi riconosciuti a livello mondiale, pur con margini di miglioramento. Quando però guardiamo gli investimenti economici – mi riferisco a dati di alcuni anni fa, non recenti – sicuramente ci sono Paesi che dedicano alla salute mentale una percentuale maggiore della spesa pubblica. Purtroppo, è difficile trovare un Paese nel mondo che abbia tutto il proprio territorio sviluppato allo stesso modo in termini di servizi per la salute mentale. In questo l’Italia non fa eccezione.

Se la riforma Basaglia ha fatto scuola nel mondo, adesso che sta per compiere 45 anni, si può dire che l’Italia è il Paese che l’ha realizzata meglio o è stato superato da altri?

Non direi. È vero che l’Italia non è arrivata a compiere del tutto la riforma Basaglia, però non credo ci siano altri Paesi che abbiano fatto di meglio. Ci sono Stati che offrono una varietà enorme di opportunità e che mettono a disposizione maggiori quantità di risorse per la salute mentale, ma è difficile trovare esempi di Paesi che ce l’hanno fatta. Per esempio, sicuramente l’Inghilterra è un Paese che continua a progredire da questo punto di vista. Ma se parlassimo con i colleghi inglesi sicuramente sentiremo denunciare una serie di problematiche o di realtà non efficienti come si vorrebbe. La spesa pubblica ad hoc in certi Paesi europei è alta, ma non vuol dire che abbiano trovato soluzioni a tutto. Fuori dall’Europa, gli Stati uniti sicuramente spendono tanti soldi in salute mentale, ma anche là non è che siano riusciti a compiere la riforma che si erano prefissi. Diciamo che non ci sono modelli compiuti. Quello che vediamo noi dell’Oms è che manca una comprensione completa di cosa sia, e cosa bisogna fare, per favorire la salute mentale. Che è un concetto complesso e che non significa solo prendersi cura delle persone malate.

Lei si occupa anche di abuso di sostanze. Secondo lei, in un’epoca in cui il quadro delle patologie psichiche va mutando (doppia diagnosi, alterazioni comportamentali, ecc.) deve cambiare l’approccio degli psichiatri e degli psicologi?

Non so se in Italia c’è un reale mutamento del quadro patologico, ma credo che quando parliamo di salute e benessere mentale bisogna considerare la necessità di promuovere ruoli, spazi e opportunità per i giovani, in modo che possano sviluppare se stessi al meglio. E questa non può essere una responsabilità solo degli psichiatri e degli psicologi. Che si attivano quando il problema c’è, ma il tema dovrebbe essere come evitarlo. Quando si ha a che fare con una persona con doppia diagnosi – disturbo psichico e di dipendenza – il problema non sta solo nelle mani dei professionisti, perché sono questioni complesse, che non si risolvono magicamente con una pillola o con qualche seduta dallo psicologo. Ci sono tanti determinanti che concorrono alla sofferenza psichica di una persona. Questo è ciò che non si è capito ancora bene, nel mondo.

In Italia, dopo l’omicidio di una psichiatra pisana compiuto da un suo ex paziente, si discute molto della violenza sugli operatori sanitari e in particolare su quelli della salute mentale, e su come evitarla. Una proposta di legge riguarda l’eliminazione di ogni forma di non imputabilità dei folli rei. Cosa ne pensa?

La convenzione delle Nazioni unite per i diritti delle persone con disabilità psicofisica, che è stata sottoscritta dalla maggior parte dei Paesi del mondo e anche dall’Italia, stabilisce che tutte le persone hanno diritti, doveri e responsabilità, al di là della diagnosi. Dunque questa proposta di legge mi sembra risponda alla Convenzione Onu. Il problema però è che prima di giudicare o punire una persona con disturbi mentali che ha commesso un reato, bisognerebbe evitare l’occasione della violenza. È di questo che si dovrebbe parlare: cosa non ha funzionato nel caso di Pisa? In genere questi fatti accadono in situazioni di isolamento, di punizione, di carenza di personale, eccetera. Perché anche se il folle reo viene giudicato, nel frattempo ci sono state le vittime. Ed è questo che va evitato. Come? Non con una legge più dura, ma con più servizi.

In questo momento in Italia sembra ci siano due accenti diversi sul terreno comune della riforma Basaglia. Quali sono i servizi da potenziare, secondo lei: quelli territoriali di prevenzione o quelli residenziali per la contenzione?

Io non sono d’accordo con la necessità di creare più strutture restrittive, dove storicamente le persone entrano e non escono mai, e rimangono così come sono. Per fortuna, l’Italia può vantarsi di aver superato quel modello. Credo che la priorità debba andare alla prevenzione della malattia e ad evitare di lasciare spazio ai violenti. Poi bisogna lasciar lavorare le Corti giudiziarie di salute mentale che esistono in tanti Paesi, con magistrati che si occupano di casi psichiatrici e violenti, e che sono a conoscenza del contesto socio-economico che concorre alla problematica della persona.

Secondo lei la legge Basaglia va attualizzata?

Faccio fatica a dire di sì, anche se non ho chiarissimo il quadro italiano. Però il problema è che se non si mettono le risorse, se non ci sono le possibilità di sviluppare i servizi, allora non c’è legge che tenga. Allora torniamo a un modello più restrittivo e punitivo.