La Germania è «tecnicamente» in recessione: anche nel primo trimestre di quest’anno la crescita del pil è stata negativa (-0,3%), dopo la caduta sul finale del 2022 (-0,5%). Smentite le stime preliminari che parlavano di crescita zero per i primi mesi del 2023.

Ora resta da capire il perché di questo nuovo scivolone e quali effetti lo stesso potrà avere sulle economie maggiormente integrate con quella tedesca. Come quella italiana. Sulle cause della contrazione del prodotto lordo il discorso è abbastanza facile. La Germania ha pagato più di ogni altra economia europea lo shock energetico causato dalla guerra in Ucraina. Non è bastata la potenza di fuoco del suo florido bilancio pubblico a compensare, nell’immediato, gli effetti della riduzione dei flussi di gas russo. Troppo stretto il livello di integrazione tra manifattura tedesca e industria estrattiva russa. Un «sistema» costruito nel corso di decenni buttato giù in pochi mesi, senza un’alternativa pronta. Certo, sono arrivati in «soccorso» gli americani. Ma il loro gas liquefatto costa quattro volte di più. E gli effetti sui prezzi al consumo si vedono eccome. Inflazione dal lato dell’offerta, che anche in Germania è diventata intanto un’inflazione da profitti (sproporzione tra rincari e aumento dei costi di produzione delle merci).

Da qui una sorta di spirale, che ha finito per indebolire la domanda interna. La seconda, e conseguenziale, causa della recessione.

I tedeschi spendono di meno. Aspettano che i prezzi calino. Da gennaio a marzo di quest’anno si sono sensibilmente contratte le spese per l’acquisto di cibi e bevande, per i prodotti di abbigliamento, per scarpe e arredi, rispetto all’ultimo trimestre del 2022. Con i consumi finali, quelli per il soddisfacimento diretto di bisogni individuali e collettivi, giù addirittura del 4,9%. Ma è il settore dell’auto che preoccupa di più. Si comprano più vetture usate e il comparto crolla. -6,5% a marzo.

Sono ormai lontani i tempi in cui la Germania sfornava sei milioni di vetture all’anno. Oggi le auto prodotte in patria sono poco più di tre milioni. E non è solo un problema di mercato interno ed europeo. Pesano molto anche le delocalizzazioni. Volkswagen, Bmw, Opel e Mercedes producono ormai oltre dieci milioni di esemplari all’anno fuori dai confini nazionali. Con conseguenze inevitabili sul ramo, transeuropeo, della componentistica.

Per l’Italia la recessione tedesca è un problema. «La debolezza della Germania, primo partner commerciale e produttivo dell’Italia, si trasmette alle industrie italiane più integrate nelle catene globali del valore e alle regioni più dinamiche, soprattutto nel Nord Italia», ammoniva già due anni fa Confindustria.

Semplice: i settori più avanzati e più dinamici dell’economia italiana, sono tali in quanto segmenti di quella che viene definita «manifattura tedesca allargata». È così che è stata costruita l’Europa. Le catene del valore, dagli Urali all’Atlantico, hanno sostanziato il processo di integrazione europea più delle istituzioni politiche e finanziarie comuni. E poi c’è il mercato tedesco. Nel 2022 l’interscambio Italia-Germania ha superato i 168 miliardi di euro. Con la Lombardia che da sola è arrivata a valerne quasi un terzo, 56 miliardi di euro. Produzione integrata e partenariato commerciale. Senza trascurare il settore turistico.

L’Italia, insieme alla Spagna, è da sempre tra le mete più desiderate dai tedeschi. No, c’è poco da sogghignare per le disgrazie tedesche. Il nostro +0,5% contro il loro -0,3% non è come un gol segnato alla finale dei campionati mondiali di calcio. Il governo farebbe bene a rendersene conto.