Mentre a Bamako si cerca di ricreare un clima favorevole agli spunti artistici e culturali per cui andava giustamente famosa la capitale del Mali prima della guerra, nelle regioni centrali e settentrionali del grande paese saheliano l’orrore regna sovrano e gli effetti sociali perversi del conflitto deflagrano in tutta la loro crudezza. A nulla è valso l’accordo siglato lo scorso settembre tra i rappresentanti dei Peul (o Fulani) e quelli dei Dogon per mettere fine alle violenze intercomunitarie riemerse a intervalli regolari a partire dal 2017.

L’ULTIMO EPISODIO, sabato scorso, è di gran lunga il più grave degli ultimi anni, con un assalto che ha raso al suolo il villaggio di Ogossagou, tra Mopti e la frontiera con il Burkina Faso, lasciando a terra oltre 150 vittime, tutti civili di etnia peul trucidati senza pietà a colpi di machete e armi da fuoco mentre veniva appiccato il fuoco all’intero villaggio.

Ogni sospetto ricade sulla Dan Na Ambassagou, la milizia – a metà tra un’associazione di cacciatori e un corpo paramilitare – che era stata creata dai dogon con il beneplacito del governo centrale e intenti iniziali di autodifesa, visto il perdurare degli attacchi jihadisti contro la comunità. A oggi si può dire che la Dan Na Ambassagou sia rimasta l’unica formazione armata, tra le tante presenti nell’area, che non abbia mai puntato le sue armi contro l’esercito regolare. Anzi. Ma anche per questo, il sospetto peggiore è che a “ispirare” il massacro sia stata l’inerzia calcolata dei militari maliani.

AL TERMINE di un consiglio dei ministri straordinario e poco prima di raggiungere in elicottero le rovine del villaggio colpito, il presidente Ibrahim Boubacar Keïta ha annunciato ieri le prime, pesanti purghe ai danni dei vertici militari, a cominciare dal capo di stato maggiore M’Bemba Moussa Keïta e dal comandante delle truppe di terra Abderrahmane Baby.
I due alti ufficiali pagano così anche l’ultimo di una serie di smacchi sanguinosi subiti dalle truppe maliane nella regione, l’attacco lo scorso 17 marzo alla base di Dioura in cui hanno perso la vita una trentina di reclute. Autori i miliziani del Macina, guidati dal predicatore peul Amadou Koufa e inquadrati nella principale coalizione jihadista del Sahel, il «Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani», di fede qaedista.

LA RIVENDICAZIONE parlava di risposta «ai crimini odiosi commessi dalle forze governative e dalle milizie che le sostengono ai danni dei nostri fratelli peul». Quei peul che ora, dopo sette anni di laceranti violenze incrociate, i dogon considerano indistintamente e nel migliore dei casi dei collaborazionisti.

Peul e Dogon, i primi parte essenziale del più grande popolo (un tempo) nomade del mondo, i secondi fino a ieri conosciuti più che altro per i saggi di Marcel Griaule sulla loro antica cosmogonia. Due pezzi importanti dell’ex mosaico etnico del Mali, andato drammaticamente in frantumi a partire dal 2011 per gli effetti collaterali della disgregazione della Libia, la diffusione tossica del radicalismo religioso di stampo wahabita che un tempo era marginale in questi luoghi, un governo centrale non all’altezza, il ruolo poliziesco e politicamente egemone di Parigi, la cui fede in una risposta solo militare e allo stesso tempo l’ansia di risparmiare, ha finito per coinvolgere gli eserciti di tutti i paesi saheliani, che poco o niente sanno dei delicati equilibri locali.

IL PRESIDENTE KEÏTA ha ordinato anche lo smantellamento della milizia dogon accusata del massacro. Ma «il governo non può sciogliere ciò che non ha creato» ha risposto il capo del gruppo Youssouf Toloba, intervistato da Jeune Afrique.