In nessuna prova elettorale, tanto più se si tratta della più importante, le elezioni politiche, la posta in gioco è solo la conquista della maggioranza dei seggi. Quella è la sfida principale, alla quale si affiancano però numerose altre variabili: la composizione del quadro complessivo; i rapporti di forza interni alle coalizioni; l’impatto inevitabile sugli indirizzi futuri dei singoli partiti; l’altalena delle leadership pericolanti. È così sempre ma in questa campagna elettorale si è determinato uno slittamento di quelle altre “poste in gioco” secondarie. La partita è mutata in corso d’opera come mai prima.

IL PD, PER ESEMPIO, era partito dandosi come meta la conquista del primo posto: sconfitto dalla coalizione posticcia della destra solo per via della pessima legge elettorale, però vincitore morale pronto a reclamare il primato dopo la e prevista implosione della coalizione vincente. Il 30% era considerato un tetto a portata di mano. Quell’obiettivo è oggi una chimera. La battaglia del Pd è per non scendere sotto la soglia psicologica del 20% e per non essere superato da quel Movimento 5 Stelle che, a inizio campagna, veniva dato per spacciato.

Per il Movimento lo slittamento è speculare ma in senso inverso: subito dopo la caduta del governo, in casa 5S il miraggio era un risultato a due cifre che avrebbe significato certa sopravvivenza. La firma in calce a un esito del 12% la avrebbero messa tutti. I futuri elettori, sondaggio dopo sondaggio, hanno fatto la differenza: oggi Giuseppe Conte lotta per sorpassare il Pd a livello nazionale, surclassarlo nel meridione, imporsi come secondo partito, piazzarsi così come forza centrale d’opposizione. Il 12% sarebbe ora una cocente delusione.

A DESTRA IL PRIMATO di Fratelli d’Italia era dato per certo sin dal primo secondo. Però non nelle proporzioni oggi attese e temute. L’asticella della Lega è scesa sino al 9-10%, al di sotto la sconfitta sarebbe disastrosa. Per Forza Italia i oscilla intorno al 5%, più in basso lo stato sarebbe comatoso. All’opposto, FdI spera in un esito ben maggiore dell’iniziale orizzonte, allora intorno al 25%. Un simile esito è temuto da tutti, anche dalla stessa Giorgia Meloni. Se infatti un solido scarto stabilizzerebbe la destra sancendo l’impossibilità di insidiare la leadership della sorella tricolore, un divario troppo ampio, tale da umiliare gli alleati e da renderli preoccupati per la stessa sopravvivenza politica, otterrebbe l’effetto opposto. La Lega e quel che di Forza Italia resta sarebbero tentati da qualsiasi manovra promettesse di scalzare e ridimensionare l’ingombrante socia di maggioranza.

UN EFFETTO DI QUESTO genere verrebbe amplificato dall’eventuale successo del Terzo Polo. Le ambizioni di Carlo Calenda in questa fase non sono mai state irrealistiche. Mira a fare del suo Centro una realtà ancora modesta ma ben radicata e, di conseguenza, a garantirsi la postazione di vertice nella massa di formazioni e microformazioni centriste, inclusa la Italia viva di Matteo Renzi. L’asticella qui è davvero questione di un paio di punti percentuali in più o in meno.

Dal 6% in giù le possibilità di disgregazione sarebbero elevate, anche perché Renzi sopporta a stento la posizione defilata che è stato costretto ad assumere in campagna elettorale. Ma già l’8% avrebbe invece un effetto opposto e renderebbe il polo di Renzi e Calenda una calamita per la massa di centristi di ogni provenienza allo sbando. Se poi alla coppia riuscisse il miracolo di sorpassare o eguagliare la Lega l’effetto terremotante sulla tenuta del centrodestra sarebbe da apice della scala Mercalli.

IN UN QUADRO SIMILE, è evidente che parecchi leader si giocano molto e forse tutto. Il più a rischio è senza dubbio Enrico Letta, e all’inizio della campagna elettorale nessuno lo avrebbe detto, ma quasi altrettanto pericolante è Matteo Salvini: un risultato disastroso lo indirizzerebbe sulla dirittura d’uscita. Per Silvio Berlusconi il declino è già sancito. La sua Forza Italia non esiste più. Per lui si tratta di trovare la via più onorevole per uscire di scena da vincitore, e dunque c’è da scommettere che farà il possibile per chiudere in bellezza da presidente del Senato. I resti della sua invincibile armata cercheranno invece di trovare un riparo e moltissimi guaderanno più a Calenda che non a Giorgia Meloni la Sovranista.