Passata la nottata (elettorale), dimenticata l’astensione. Di solito è così che funziona: al calo della partecipazione si dedica la prima mezz’ora post-elettorale in attesa di conoscere – e commentare – l’esito del voto, chi ha vinto e chi ha perso, quale coalizione è cresciuta e quale franata. Ma quando il crollo diventa un tracollo, lasciando per strada, dopo quattro anni di legislatura, oltre 9 punti di partecipazione, allora non si può più fare finta di nulla. In quasi un quindicennio, cioè – per semplificare – dalla Grande Recessione del 2008 alla Grande Pandemia del 2020-22, la politica italiana ha perso, nel disinteresse generale, in media più di un punto di affluenza all’anno, passando dall’80% all’attuale 64%.

Il risultato è che oggi l’universo del non-voto è diventato davvero la prima forza politica (36% di non votanti), superiore addirittura di 10 punti rispetto al fiammeggiante partito di Meloni. Conosco l’obiezione di rito: l’area del non-voto è, per l’appunto, un amalgama informe, al cui interno si trova un po’ di tutto e di tutti, dal giovane studente fuorisede all’ottantenne stanco della pratica elettorale, dal lavoratore appena licenziato in cassa integrazione al rampante manager temporaneamente all’estero per business. Quindi, chi non vota non ha (tessera di) partito, e la sua protesta silenziosa rimane lettera morta, senza conseguenze.

C’è però una distinzione che è utile tenere a mente quando si prova a indagare le ragioni – e le rabbie – del non voto. Da un lato, esistono le motivazioni congiunturali o individuali che spiegano l’astensione. La maggiore mobilità geografica della società italiana, il tendenziale degiovanimento della popolazione, l’eccessiva rigidità della «macchina» ministeriale nel gestire l’intero ciclo elettorale sono tutte ragioni che spiegano il non voto occasionale, dovuto a esigenze temporanee. Proprio su queste spiegazioni è intervenuto il recente, e anche eccessivamente lodato, Libro bianco sull’astensionismo commissionato dal ministro per i rapporti con il parlamento, provando a individuare rimedi che sono stati puntualmente accantonati tanto dalla classe politica che dai dirigenti al ministero dell’Interno.

Dall’altro lato, però, esistono ragioni strutturali, e ormai di lungo periodo, che risultano molto più efficaci nello spiegare soprattutto l’esplosione dell’astensione. Ne indico tre solo per brevità. La prima è la consapevole, ricercata ritirata dei partiti dal territorio. Convinti che, per mantenere un rapporto col proprio elettorato, bastasse qualche passaggio in tv o, più di recente, qualche comparsata su TikTok, i partiti e i loro leader, complice nel frattempo anche l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti (citofonare: Letta), hanno diradato la loro presenza fisica on the ground, sull’unico campo dove si possono conoscere realmente le esigenze e le problematiche degli elettori.

La seconda ragione è la scomparsa, anche qui tenacemente ricercata, di una qualsiasi visione del futuro, di un orizzonte ideologico da perseguire e su cui costruire almeno la parvenza di una comunità di destino, uno scopo per cui vale la pena mobilitarsi. E infine, prosciugati organizzativamente e spogliati ideologicamente i partiti, la politica stessa è diventata l’ordinaria amministrazione delle cose, un lavoro da ragionieri (o da banchieri) dove quello che conta è il saper fare e non tanto, o non più, il che cosa o il per chi fare.

Sono queste le principali ragioni strutturali che oggi spiegano l’allontanamento di una quota sempre più massiccia di elettori dal circuito della rappresentanza democratica. Per di più, se le motivazioni congiunturali richiamate in precedenza colpiscono trasversalmente diversi ceti sociali, le ragioni strutturali della fuga dalle urne hanno al contrario un netto tratto sociale e culturale. Sono infatti le fasce più povere (o impoverite) e meno istruite della società italiana, quelle con contratti precari, salari inconsistenti o pensioni indecenti, a disertare il voto perché sentono sulla loro pelle il deficit di rappresentanza, l’assenza di una voce organizzata che si faccia carico del loro malessere.

Non è un caso se la partecipazione elettorale nel quartiere Duomo a Milano è di circa 20 punti superiore rispetto a quella registrata a Fuorigrotta a Napoli, nel rione San Paolo a Bari o allo Zen di Palermo. In quello scarto di astensionismo aggiuntivo ci sta tutta la differenza tra una democrazia che funziona e una democrazia azzoppata. Tra una rappresentanza elitaria e una sovranità dimezzata, dove le sole voci che si sentono solo quelle che contano. La degenerazione oligarchica è ormai l’ombra che perseguita la nostra democrazia.