Un esempio di grande forza, artistica e culturale, è sui nostri palcoscenici Lino Musella, attore eccellente capace nello stesso tempo di scelte drammaturgiche avanzate, quale è ora un suo viaggio attraverso la scrittura più impegnata di Harold Pinter.

LO SCRITTORE inglese, uno degli autori massimi del 900, ha attraversato generi teatrali diversi nella sua corposa storia artistica. Da attore e da scrittore, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, fino alla morte nel 2008, meritando pochi anni prima di morire il Nobel per la letteratura. Costante nella sua scrittura, sempre densa eppure formalmente essenziale, ha portato in scena un forte impegno sociale e poi scopertamente politico: non per appartenenza ai partiti o a correnti di pensiero, quanto piuttosto come attenzione al mondo, a una umanità sempre vittima di sopraffazioni e di violenza, e di dittature di vario genere, riuscendo a scoprirsi (e quindi a farsi valere) proprio nel vivere in scena i propri meandri interiori e insieme la violenza (verbale e fisica, anche estrema) di cui i poteri forti fanno uso. Elaborando, da scrittore, forme originali per rendere esplicita la denuncia della miseria morale dei «forti», e possibili capacità di resistenza da parte di chi quel potere non ce l’ha.

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Il tempo di Harold PinterLino Musella da parte sua ha dimostrato come è possibile scavare in profondità dietro le «apparenze» (era suo il bellissimo lavoro su Eduardo De Filippo, Tavola tavola chiodo chiodo); questa volta ha scelto di lavorare proprio sulla scrittura di Pinter. Mettendone in scena, col titolo complessivo Pinter party, tre testi brevi, di momenti diversi della sua biografia: Il bicchiere della staffa, Il linguaggio della montagna e Party Time. Titoli cui vanno a fare da legame, e quasi teoria politica, brani del discorso che Pinter aveva preparato nel 2005 per la cerimonia del Nobel, cui poi non poté partecipare per un peggioramento della sua salute, mandando a Stoccolma un video del suo intervento, rimasto davvero «storico».

NELLO SPETTACOLO di Musella al San Ferdinando (prodotto dal Teatro nazionale di Napoli) si segue quindi un flusso di pensiero e di maturazione politica, dove le situazioni diverse, e il procedere della lucidità politica, si giovano reciprocamente a costruire (e restituire allo spettatore) una visione sempre più critica e dolorosa di presa di coscienza, e di denuncia.
I diversi testi, e le diverse situazioni, si lasciano scoprire e intrecciare a vicenda, rendendo sempre più acuto quel senso che dal dolore svela l’ingiustizia, che da privata diviene collettiva, anzi di massa rendendo una minoranza padrona del mondo e dei suoi abitanti, delle loro vite, delle loro scelte, e delle loro intelligenze. Dal dolore della parola che si fa violenza nel Bicchiere della staffa, alla incomprensione che dietro l’ignoranza della lingua arriva a scartare e infine sopprimere una minoranza, fino al «primato» sociale di una classe corrotta e «spregiudicata» che può far morire violentemente chi prova ad opporsi.

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Essere Eduardo, le leggi profonde e emozionanti del palcoscenicoSono i diversi «gradi calorici» di narrazione dei tre testi che Pinter ha scritto negli anni, e che prendono corpo nello spettacolo grazie a un fitto e meritevole gruppo di attori che con costante e progressiva intensità passano dal ruolo di vittime a quello di «assassini»: da Betti Pedrazzi a Paolo Mazzarelli a Totò Onnis tra gli altri, e allo stesso Musella che quando non ha un ruolo specifico passa a offrire da bere nel ruolo del cameriere. Ma è tutto l’ensemble che lancia al pubblico il messaggio delle crudeli parole di Pinter, acuminate quando mostrano l’intolleranza verso «lo straniero» e quasi ancor più crudeli nel rito del party d’alto bordo, che tra un bicchiere e una mondanità tifa per la repressione crudele, estrema fino al sangue, della protesta sociale. In un’ora e mezzo, serrata e vitale, scorre la vasta gamma della società violenta e escludente che Pinter ci ha lasciato, le sue parole acuminate e assassine, che continuano ad essere il ritratto più impietoso e veritiero di una società «di classe» e di classi contrapposte, dove l’ingiustizia e la repressione restano egemoni come strumento e come «valore», fino all’assassinio. Come le cronache continuano a mostrarci.