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Le false promesse sulla casa nel deserto di politiche pubbliche

Le false promesse sulla casa nel deserto di politiche pubbliche

Una parte di ceto medio vede diminuire il valore del patrimonio, mentre deve sostenere costi elevati per i figli fuori-sede perché a Milano o Bologna i valori crescono

Pubblicato più di un anno faEdizione del 17 maggio 2023

E’ bastato lo spuntare di una tenda di fronte a un ateneo per illuminare una questione abitativa la cui irruzione sulla scena non possiamo davvero comprendere se non nel contesto dei più ampi squilibri sociali e territoriali dell’Italia contemporanea. Gli studenti, come ovvio, non sono gli unici.

I ceti popolari, di cui i nuclei con retroterra migratorio sono specie al centro-nord componente qualificante, sono stati abbandonati alla precarietà abitativa di un mercato dell’affitto asfittico, sregolato e lasciato senza una regia. Oppure sono stati relegati nelle componenti del patrimonio in proprietà più periferiche e più facilmente svalutabili, come mostrato puntualmente dalla crisi del 2008.

Sulla base della promessa della proprietà per tutti, le politiche della casa sono state desertificate, con l’idea che l’unica cosa che rimanesse da fare fosse quella di espandere indefinitamente la base proprietaria. Tale promessa, potente e largamente condivisa fra gli attori politici, ha visto negli ultimi due decenni modificarsi e articolarsi i suoi motivi. Ed a quello tradizionale del trasferimento intergenerazionale della ricchezza si è aggiunto anche quello della rendita turistica diffusa che, in un paese con stagnante e salari in negativo, è apparsa come una scialuppa di salvataggio cui disperatamente aggrapparsi. Ma tali vecchie e nuove promesse, sebbene continuamente rinnovate dalla classe politica, si stanno rivelando sempre più irrealistiche. Una struttura sociale sempre più stirata si riflette oggi in una struttura territoriale ancor più stirata.

I ceti medi e non solo medi di larga parte del paese – dal Piemonte alla Sicilia, dalle Marche alla Sardegna – sanno che i loro investimenti nella casa non garantiranno un trasferimento di risorse ai propri figli all’altezza delle loro aspettative. Egualmente, questi ceti sanno che la possibilità concreta di estrazione di rendita per via turistica spesso si ferma ai confini della semi-periferia delle grandi città, per non parlare dei vasti territori non urbani non inclusi in paesaggi pregiati. E tali promesse si incrinano mentre sempre più spesso i medesimi ceti si trovano a dover mobilitare risorse sempre più significative per sostenere i propri figli in un numero sempre più ridotto di poli urbani entro i quali invece si realizzano estrazioni di rendita sempre più consistenti che sono esito di processi di valorizzazione molto concentrati e totalmente sregolati.

Questi ceti si trovano così da una parte a dover fronteggiare ed accettare aspettative decrescenti rispetto al valore del proprio patrimonio, e dall’altra a sostenere costi sempre più elevati per i propri figli fuori-sede perché viceversa a Milano o Bologna i valori, e con essi le aspettative, crescono. Il complesso crocevia che ha permesso la subitanea messa in visibilità della questione abitativa si colloca in gran parte qui. E non lo si comprende guardando solo a cosa succede nei poli, ma viceversa guardando anche a quanto capita (e non capita) nelle periferie variamente intese. La subitanea, rapidissima inversione del discorso apologetico su Milano affonda qui le proprie radici, in una crescente difficoltà dei ceti centrali di rispecchiarsi in processi di polarizzazione che sono andati troppo in là per non risultare politicamente controversi e contundenti.

Specie in una paese che, nelle sue strutture culturali profonde e durevoli come nelle sue aspettative patrimoniali, si è sempre vissuto quale policentrico e invece si scopre improvvisamente divaricato e polarizzato ben oltre il tradizionale dualismo fra Mezzogiorno e Centro-Nord, che è andato anch’esso allargandosi. Questa crescente divaricazione delle traiettorie territoriali dei ceti medi incrina dall’alto la base sociale tradizionale della proprietà come unica strada, mentre la rompe dal basso per via della sempre maggiore difficoltà delle giovani generazioni ad accedere alla proprietà entro le condizioni spaziali e di organizzazione sociale che sembrano preferire, ovvero condizioni di qualità urbana.

Fra questi ultimi, il conflitto è organizzato attorno allo iato che si è aperto fra tale domanda sociale e la crescente incapacità degli attori pubblici di assicurarla in un contesto nel quale il mercato la polarizza in un numero decrescente di poli ed a condizioni sempre più difficili.

Il “fate i pendolari” rivolto agli studenti non tiene conto di questo cambiamento: nel paese, fra le generazioni più giovani, è cresciuta la domanda sociale di vita urbana mentre andava restringendosi la sua offerta, anche per l’incapacità dell’attore pubblico di mettere in fila casa, servizi e diritti in quadri desiderabili di vita quotidiana al di là di dove il mercato produce spontaneamente qualità urbana, ovvero alcuni grandi poli urbani e la macro-regione del nuovo triangolo industriale fra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Per fare questo ci voleva un altro stato. Uno stato regolatore del mercato, ed uno stato capace di progettare vere politiche pubbliche che migliorassero diffusamente le condizioni di abitabilità e di attrattività di una varietà di territori. Invece, l’azione pubblica di uno stato sempre meno programmatore e concertatore e sempre più stato-bancomat, ha di fatto suffragato quanto faceva il mercato. La promessa di nessuna riforma del catasto e di nessun prelievo sulla casa suona sempre più grottesca quando, al posto di sostenere maggiore equità fra i proprietari nell’insieme del paese, fa esattamente il contrario.

Egualmente, gli incentivi a pioggia – anch’essi straordinariamenti anti-redistributivi – suonano inadeguati quando è il declino delle condizioni territoriali di contesto la radice della svalutazione del patrimonio in gran parte del paese. Come suona grottesca una concezione dell’abitare studentesco che, pur con grande dispiegamento di risorse pubbliche, tende a non alterare bensì consolidare le condizioni del mercato. Lungo queste faglie che attraversano l’Italia e la sua composizione sociale si apre forse, potenzialmente, una qualche possibilità di riforma.

La riqualificazione ed espansione del patrimonio pubblico forse oggi può parlare ai ceti popolari ma anche ad una parte dei ceti medi, specie fra i più giovani. Una regolazione equa del mercato e della fiscalità immobiliare che restituisca al resto del paese una parte della valorizzazione che si produce in pochi poli può forse fare lo stesso, in particolare nell’Italia delle città piccole e medie. Un’attiva politica abitativa metropolitana può forse parlare anche agli stessi interessi industriali, sempre più strozzati da economie estrattive che in alcuni contesti iniziano troppo a condizionarli.

Come ovvio, il PNRR poteva essere il terreno di questo esercizio riformatore, ma come evidente non lo è stato e forse non poteva esserlo. Ma questa è la fatica di sempre per i riformisti: le ragioni urgenti delle riforme, quelle che cambiano la vita dei tanti e in meglio, spesso si manifestano quando si sono appena chiuse le opportunità di realizzarle. Un motivo in più per rimettersi all’opera.

*Urbanista

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