Internazionale

Le donne di Gaza arrestate da Israele: «Dove sono?»

Alla ricerca di sopravvissuti tra le macerie della casa della famiglia Baraka a Deir al Balah, nel centro di GazaAlla ricerca di sopravvissuti tra le macerie della casa della famiglia Baraka a Deir al Balah, nel centro di Gaza – Epa/Mohammed Saber

Palestina/Israele L’allarme delle associazioni dei prigionieri palestinesi. Sciopero generale in Cisgiordania. Sale a 18.200 il bilancio degli uccisi. Borrell: «Distruzione apocalittica»

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 12 dicembre 2023

Sono almeno 142 le donne di Gaza arrestate dal 7 ottobre dall’esercito israeliane. Di alcune di loro non si hanno notizie, dove siano detenute e quali siano le loro condizioni, altre sono state rilasciate dopo gli interrogatori. A darne conto ieri è stata la Commissione per gli affari dei prigionieri dell’Autorità nazionale palestinese che, in un comunicato congiunto con il Palestinian Prisoners’ Club, parla di «crimini orribili» commessi contro le detenute.

Madri separate dai figli, arresti arbitrari nei cosiddetti «corridoi sicuri» lungo la Salah al-Din road, percorsi da centinaia di migliaia di gazawi, detenzioni in territorio israeliano nelle prigioni di Damon e Hasharon, abusi psicologici e fisici in cella.

LE TESTIMONIANZE raccolte giungono dalle ex prigioniere liberate nello scambio con gli ostaggi israeliani, a fine novembre. «Siamo riuscite a vederle da una piccola fessura sulla porta della sezione – racconta a Middle East Eye una di loro, la 65enne Suhair Barghouti, secondo cui le autorità carcerarie avrebbero vietato alle cisgiordane di parlare con le gazawi appena arrivate – Avevano le mani legate, le guardie le trattavano con durezza».

Barghouti ha poi detto di aver portato dei vestiti nelle docce, per farglieli trovare. Ma soprattutto ha raccontato di pestaggi, minacce di stupro, veli strappati e deprivazione dal cibo. Secondo il Palestinian Prisoners’ Club, le prigioniere di Gaza non hanno avuto ancora accesso agli avvocati. Di cosa siano accusate non è dato sapere.

Intanto nella Striscia prosegue l’offensiva militare israeliana. Ieri il ministero della salute ha dato l’ultimo bilancio, al ribasso a causa dell’impossibilità di recuperare i dispersi da sotto le macerie: dal 7 ottobre sono stati uccisi 18.205 palestinesi, 49.645 i feriti, molti resi disabili per sempre.

Un elemento che avrà conseguenze durissime nella Gaza post-offensiva. Soprattutto alla luce dell’implosione del sistema sanitario, certificato ieri da Medici senza Frontiere: «È completamente collassato – ha detto ieri la coordinatrice delle emergenze di Msf, Marie-Aure Perreaut – è estremamente difficile accedere alle sale di pronto soccorso perché ci sono i feriti precedenti».

Domenica l’Organizzazione mondiale della Sanità ha approvato una risoluzione, la prima all’unanimità dal 7 ottobre, chiedendo «il passaggio immediato, duraturo e senza impedimenti degli aiuti umanitari». «Non risolve la crisi, ma è una piattaforma su cui costruire», il commento del direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, tra i rappresentanti delle istituzioni internazionali che più di altri dà voce alla frustrazione di fronte all’impossibilità di intervenire in una crisi umanitaria con pochi precedenti.

ANCHE A CAUSA degli ostacoli posti alle Nazioni unite, a partire dai veti statunitensi al cessate il fuoco. A pochi giorni dall’ultimo, ieri Emirati ed Egitto hanno organizzato un viaggio informale al valico di Rafah per i delegati dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza (si sono presentati in 13, assenti Stati uniti e Francia).

Nelle stesse ore a Bruxelles – mentre si discuteva di sanzioni ad Hamas e ai coloni israeliani responsabili di violenze – l’alto rappresentante per gli affari esteri della Ue, Josep Borrell, definiva la distruzione di Gaza «apocalittica», «perfino più grande di quella sofferta dalle città tedesche nella seconda guerra mondiale». Difficile che da tali parole escano risultati immediati. Si spera almeno di accorciare i tempi previsti da Israele e ribaditi domenica dal premier Netanyahu che ha parlato di nuovo di mesi.

Secondo l’israeliano Channel 13, il primo ministro avrebbe creato un team segreto con la partecipazione dell’intelligence per definire i piani per la Striscia dopo l’attacco. Se Netanyahu aveva già parlato di mantenere una presenza militare, ieri il ministro della difesa Gallant ha solo stemperato: non abbiamo intenzione di rimanere «permanentemente», ha detto, senza dare dettagli.

PER GAZA è impossibile pensare ad altre settimane di offensiva. Che, in una forma diversa, pesano anche sulla Cisgiordania, da più di 65 giorni chiusa dai blocchi israeliani che impediscono di lavorare e muoversi normalmente. Ieri, però, a congelare ogni attività sono stati i palestinesi con un giorno di sciopero generale.

Saracinesche abbassate, scuole e uffici chiusi. E manifestazioni: da Hebron a Ramallah a migliaia sono hanno chiesto il cessate il fuoco a Gaza e la fine dell’occupazione. Sui cartelloni i volti dei prigionieri, i nomi di migliaia di vittime nella Striscia e una scritta, «We are not numbers», l’iniziativa lanciata dal poeta Refaat Alrareer, ucciso a Gaza il 6 dicembre.

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