Nel programma elettorale di Giorgia Meloni il primo punto, che ha per titolo «Sostegno alla natalità e alla famiglia» prevede tra le altre cose: «Piena applicazione della Legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza, a partire dalla prevenzione».

E ancora: «Istituzione di un fondo per aiutare le donne sole e in difficoltà economica a portare a termine la gravidanza. Promozione di spazi dedicati ai neonati dotati di fasciatoi e zone allattamento in tutti gli edifici accessibili al pubblico». Sul come questi ultimi due punti possano contribuire all’incremento della natalità, ho qualche perplessità, ma benvenuta la creazione di un fondo per aiutare le donne in difficoltà economiche, tuttavia credo si tratti di una semplificazione – almeno in molti casi – attribuire la scelta basata su questo unico aspetto.

Posso testimoniare, per esempio, che nei casi in cui la donna non voglia interrompere la gravidanza, per mille suoi motivi, non lo farà, neanche se in condizioni di grave disagio economico o sociale. E se nel colloquio con la donna emergono elementi che possano aiutarla, davvero si può pensare che il consultorio e il ginecologo non lo stiano già facendo? Confesso di sentirmi infastidita da chi oggi mi indica di fare quello che faccio da sempre.

Sono 44 anni che in qualità di ginecologa non obiettrice di coscienza mi confronto con le donne che si rivolgono ai nostri centri per una gravidanza “non prevista” e devo ribadire che la complessità di questa situazione comporta delle reazioni, e di conseguenza delle decisioni, assolutamente non univoche.
Sono 44 anni che la legge viene sistematicamente disapplicata per quanto riguarda l’articolo 9 che regolamenta l’obiezione di coscienza: gli ospedali «sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza» e «la regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale». È lo stesso Istituto Superiore di Sanità ad auspicare «che le Regioni che presentano le maggiori criticità possano valutare soluzioni per garantire quanto indicato nell’articolo 9 della legge 194/78».

Pur essendo consapevole delle diverse posizioni sull’obiezione di coscienza, mi limito a sottolineare come quello che da noi viene considerato il maggior ostacolo sia un’opzione esistente anche in altri paesi (Francia e Inghilterra), dove l’aborto non presenta – generalmente – problemi di accesso. Molte esperienze negative che le donne denunciano derivano da comportamenti inammissibili da parte degli stessi operatori non obiettori che, a volte, riversano sulla paziente lo stesso stigma di cui si sentono portatori.

Altro punto disatteso: l’articolo 15 che prevede che «le regioni, d’intesa con le università e con gli ospedali, promuovono l’aggiornamento del personale sanitario sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». Come non considerare una violazione di questo articolo l’aver ostacolato per anni l’introduzione nel nostro del metodo farmacologico, alternativo a quello chirurgico?

Eppure fu una campagna portata avanti da Eugenia Roccella, allora sottosegretario alla salute del governo Berlusconi, contro ogni evidenza scientifica in proposito. Candidata nelle liste di Fratelli d’Italia in quest’ultima campagna elettorale, nella foga di sostenere la sua posizione antiabortista, è arrivata a dichiarare in una intervista a Radio Radicale che «le donne non hanno il diritto di fare figli, l’unico diritto per la donna oggi è di non essere madri». E continuare a mettere in relazione la decrescita della natalità con l’abortività non ha alcun senso nel nostro paese: entrambi i dati sono drasticamente in calo.

Viene poi disapplicato anche dalle molte Regioni che non si sono ancora organizzate nel recepire le linee di indirizzo del ministro Speranza sul metodo farmacologico, emanate oramai più di due anni fa.

In occasione della giornata internazionale dell’aborto sicuro che dal 1990 si celebra il 28 settembre, la Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione (Fiapac), nella sua dichiarazione, ha sottolineato un dato sempre più decisivo: «Una società giusta non interferisce con questa decisione privata. Il diritto di accedere all’aborto è parte integrante dell’assistenza sanitaria delle donne… e le decisioni cliniche sulla cura dell’aborto dovrebbero essere prese da coloro che ne sono direttamente coinvolti. Non spetta ai politici dettare cosa dovrebbe essere detto alle donne o come dovrebbero esercitarsi i medici».

Il ruolo della politica dovrebbe essere quello di assicurare per legge la salute riproduttiva quale diritto umano, come riconosciuto dalla Conferenza mondiale di Pechino nel 1995. Sarà poi compito delle agenzie internazionali e delle società scientifiche di stabilire le migliori procedure da seguire. Le ultime linee guida della Oms (2022) raccomandano di tener conto degli effetti e delle implicazioni relative alla disponibilità dell’aborto su richiesta della donna, ragazza o altra persona incinta, senza ulteriori restrizioni.

All’attenzione di Giorgia Meloni.