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Le aziende se ne vanno, su Roma cala il silenzio

Le aziende se ne vanno, su Roma cala il silenzio – LaPresse

Città eterna I tratti post-bellici della città, autobus che non passano, esercito in strada e chi può emigra nella capitale del nord. Eppure non mancano gli anticorpi sociali

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 1 giugno 2017

Parlare di Roma è diventato sempre più difficile: si rischia lo sberleffo, o l’ironia di chi pensa (senza semmai confessarlo in pubblico) non ci sia più nulla da fare: è un malato terminale, dunque aspettiamone la fine. Ma il dramma è proprio questo: il malato terminale non muore e neppure guarisce e poi questa città ha conosciuto, in lontani passati, ben altre disgrazie, perfino la peste.

Sulla città, tra i suoi abitanti (e i suoi sempre più silenziosi intellettuali), è scesa una cappa di cinico silenzio.

Non c’è più spazio neppure per la vergogna (sentimento nobile) di vederla venduta a pezzi sul mercato immobiliare globale (leggi: il grande “capannone” sul colle Palatino; la piazza del Colosseo trasformata in un suk; la volgare esibizione delle vetrine spazzatura del centro e così via).

Per il resto, la vita quotidiana ha assunto aspetti post bellici: autobus che non passano o rischiano di incendiarsi, gimkane automobilistiche tra le camionette dell’esercito che dovrebbero scoraggiare eventuali attacchi terroristici e perfino una metropolitana che ha smarrito la strada, incagliatasi nei pressi di San Giovanni senza sapere dove andare oltre. La via dei Fori imperiali sembra aver subito un recente bombardamento così che è in atto la sua ricostruzione con tanto di gru, cantieri, movimenti di terra, puntellamento di antiche strutture che erano sopravvissute alla corrosione del tempo. E le periferie, prima e oltre il raccordo anulare? Per loro ci sono i grandi centri commerciali destinati a soddisfare le più svariate voglie consumistiche.

Attività produttive (le poche rimaste) trovano più allettante trasferirsi nella capitale-ombra: Milano. Mai vista una classe politica e dirigente trattare in modo così sprezzante la Capitale d’Italia e la sua nobile storia, abbandonata alla ricerca di qualche discarica dove portare i propri rifiuti. Potremmo aggiungere che la sindaca Raggi e il M5S ci mette del suo per rincarare l’agonia, ma tutto sommato si mantiene in media col comportamento scandaloso della restante parte politica. Nessuno, ma proprio nessuno, investirebbe in questa città: non solo soldi ma nemmeno sforzi, idee, progetti per migliorarne le condizioni: è una battaglia persa si dice tra gli addetti ai lavori.

Chi volesse recarsi dal dentista dall’altra parte della città, dovrebbe prendere una giornata di ferie; chi volesse incautamente recarsi a teatro di sera, dovrebbe assicurarsi che un qualche taxi lo venga a soccorrere all’uscita. Il noto etologo (scomparso recentemente) Danilo Mainardi doveva aver tratto molte ispirazioni da questa città quando scrisse il libro, La città degli animali: un cervo lungo i binari, un capriolo in giardino, un cinghiale sul marciapiede, una volpe sul cofano di un’auto parcheggiata. E’ quello che sempre più spesso accade nella città, che finisce sulle pagine locali dei quotidiani. O forse finiva, perché ormai queste segnalazioni stanno diventando una non notizia.

La natura avanza attraverso un processo di ricolonizzazione come fossimo in una città al confine con la foresta amazzonica.

Chi ha più pena per questa città? Chi arrivasse a Termini dopo un lungo viaggio, allo sbarco troverebbe transenne, poliziotti, fantasmagoriche vetrine che esibiscono prodotti di bellezza, pizzerie, paninerie e perfino una finta mucca di legno per vantare la genuinità del prodotto.

In compenso, una sola edicola di giornali: inutile leggere sui treni frecciarossa dove una volta seduti, non puoi nemmeno più stendere le braccia per sfogliare un quotidiano. Con quei treni, però, puoi raggiungere Milano in tre ore: una gita fuori porta quando magari la domenica decidi di abbandonare questa città agonizzante per visitare la “vera capitale” d’Italia.

Leopardi odiava questa città (anche come turista era profetico) sostenendo che «delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono meravigliose, ma non le sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno».

E aveva capito bene come comportarsi in questa città: «… farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire fabbricarsi dintorno come una piccola città, dentro la grande…».

Che Roma sia affetta da una grande maledizione, da un qualche malefico esorcismo? La presenza del Papa dovrebbe essere sufficiente a scongiurare l’una e l’altro.

Eppure, eppure, nelle vene di questa città ci sono anticorpi robusti e creativi: centri sociali, luoghi di accoglienza, seminari, dibattiti, studenti, organizzazioni sociali vivaci, che lavorano in controcorrente. Loro sì, rigeneratori di vita sociale, di relazioni dense, di produzione di socialità.

Forse aveva ragione Carlo Cattaneo quando sosteneva che «la cultura e la felicità dei popoli non dipendono tanto dagli spettacolosi mutamenti della politica, quanto dall’azione perenne di certi principi che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore di istituzioni».

Insomma questi poveri monumenti abbandonati all’orda dei turisti-cavallette, bisognerebbe ricominciare ad amarli, a sentirli propri, parte della propria storia, come aveva tentato di fare Petroselli pensando che l’area dei Fori fosse di tutta la città e anche degli abitanti delle periferie.

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