Celebrare oggi il 25 Aprile vuol dire anche riflettere sul senso di giustizia e di fratellanza che ci ha trasmesso. Riflettere sulla permeabilità e la continuità amministrativa e burocratica delle strutture statali nel passaggio tra fascismo e repubblica: sulla mancata epurazione di chi troppo compromesso con il regime e sull’impunità dei torturatori.

Al di là delle figure di spicco però esiste anche la considerazione di una ripartizione del potere, rispetto alla quale la maggioranza silenziosa ha avuto poco e niente. Milioni di individui, che non hanno avuto voce tra le narrazioni contemporanee perché troppo deboli o situati nella parte in ombra della storia. Dare spazio non solo alle memorie dei vincitori, ma anche alle contro memorie dei vinti è uno tra i modi di ricompattare una comunità lacerata: memoria di chi non ha saputo né voluto dimenticare di avere indossato la camicia nera per vent’anni, dei monarchici e dei clericali ostinatamente antisocialisti che sposarono la causa fascista fin dagli inizi.

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I simboli, materiali e spirituali, della giornata della liberazione dal nazifascismo attraversano una congiuntura di memorie storiche ambivalenti, che tacciono sul peso della solidarietà sociale, all’indomani della liberazione, tra le “destre”, di potere, sconfitte, che subito hanno saputo ricompattarsi e reinventarsi.

Riempire i vuoti conoscitivi ci aiuterebbe oggi a capire con maggior lucidità che cosa esattamente abbiamo ereditato non solo dagli antifascisti ma anche dalla democratizzazione forzata del popolo degli sconfitti del 25 aprile, ascoltando anche coloro che malamente hanno saputo tener sottotraccia le speranze di derive autoritarie e reazionarie, dal 1947 fino ai giorni nostri.

Dato che di memoria storica ad uso pubblico si tratta, è giusto porsi anche la domanda sulla natura dei legami che tennero uniti vincitori e vinti, l’Italia e gli Italiani, e di quelli che oggi, forse, ci legano all’insegna dei valori di una Costituzione troppo spesso tradita o ignorata. In essa si afferma che l’Italia ripudia il fascismo, eppure l’eredità di quest’ultimo è stata legittimata ad esistere e perdurare, strisciando nelle vene della Repubblica fin dai suoi primordi: il cammino democratico dell’Italia iniziò claudicante ed in parziale continuità, amministrativa e burocratica con il passato, evitando da subito di smantellare le posizioni di carriera dei funzionari in carica durante il ventennio, in primis prefetti e magistrati. Furono questi ultimi nei rinnovati tribunali democratici ad amnistiare in istruttoria 23 mila fascisti, tra i quali anche le figure più sadiche e feroci della repubblica sociale. Quella non fu giustizia.

Per questo l’unico modo di non tradire e l’impegno di chi ha combattuto contro un governo ingiusto anche dopo la caduta del fascismo, è riconoscere e distinguere con coscienza, oggi, gli elementi di continuità e di discontinuità che si sono rincorsi ed intrecciati per oltre settant’anni, segnando fratture e nuovi punti d’incontro tra le comunità. Proprio su questi ultimi, gli italiani dovrebbero riflettere, perché è nelle radici comuni, cristiane, che non solo l’Italia ma tutta l’Europa si sorregge.

Solo a partire da quelle radici comuni potremo ridisegnare una nuova mappa politica contemporanea, reinterpretando il passato cogliendone le occasioni mancate: i progetti e le idee rimaste inespresse dal 47’ in avanti, per una nuova autonoma organizzazione democratica che sappia auto rappresentarsi come popolo di genti, in grado di riconoscersi nella tolleranza della diversità e nella forza dell’unione. Solo così potremmo slegarci dagli stereotipi e dalle malattie di un capitalismo che ci vuole soli, fragili ed in perenne competizione gli uni con gli altri.

*Storico contemporaneista in formazione, dal 2022 detenuto presso la II casa di reclusione Milano Bollate, per gli incidenti di Piazza San Giovanni a Roma del 2011 avvenuti durante la manifestazione della “giornata dell’indignazione”.