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L’autonomia regionale differenziata farà a pezzi l’Italia

L’autonomia regionale differenziata farà a pezzi l’ItaliaLuciano Fabro, l'Italia dell'emigrante, 1981

Unità L’operazione «autonomia differenziata», in sostanza, sembra essere stata pensata più per avvantaggiare il ceto politico-amministrativo locale, con la scusa o la maschera della maggiore efficienza.

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 16 settembre 2022

Se c’è un tema che appare a chiare lettere nei programmi della destra, ma anche in quelli del Pd, è quello dell’autonomia regionale «differenziata». Fatto ancor più preoccupante. Perché con questa idea si dà legittimazione definitiva alla «secessione dei ricchi», com’è già stata definita.

La storia d’Italia dall’unità in poi è quella di un processo in cui alcuni Stati, da cui hanno poi preso forma le regioni attuali, hanno tratto più giovamento di altri. Nelle regioni del Nord lo sviluppo industriale prese piede grazie alla combinazione di disponibilità di materie prime, maggiore vicinanza ai mercati europei e un’imprenditoria spesso sostenuta dallo Stato. Il meridione, dove pure un’industria era presente, rimanendo poi in secondo piano, continuò a fungere per lungo tempo da «granaio» e «frutteto», con un’agricoltura arretrata e per lo più estensiva in cui la sovrabbondanza di manodopera trovò l’unico sbocco possibile nell’emigrazione. A nulla valsero i moti per le terre che agitarono il Sud in varie ondate fin dopo la Grande guerra.

Questo processo è continuato fino al secondo dopoguerra, allorché l’Italia si trovò a scegliere quale «sentiero di sviluppo» imboccare e scelse quello più conveniente alla sua élite economica del tempo: rafforzare lo sviluppo industriale nel Nord facendo leva su quell’esercito di manodopera disponibile al Sud, con il conseguente abbandono dell’agricoltura e dei territori al loro destino. Quando lo sviluppo raggiunse il suo «culmine» – continuando poi ad estendersi nelle altre regioni del Nord e in parte del Centro – verso la metà degli anni Settanta, erano già stati messi in opera giganteschi piani di «industrializzazione» forzosa del Meridione, grazie alla Cassa del Mezzogiorno che era però divenuta grande serbatoio di sovvenzioni e clientelismo per le élite locali, con esiti magri. Le riforme fondiarie e agrarie non avevano avuto il segno sperato di fornire un potenziale produttivo alla piccola azienda contadina familiare, con appezzamenti di ampiezza sufficiente, irrigazione, dotazione di macchinari e quant’altro. E così, dagli anni Ottanta a oggi, l’Italia è rimasta incardinata su quei due «binari» che nel tempo non hanno fatto che divaricarsi.

La storia d’Italia è la storia di un paese spezzato, ove la crepa, se non il baratro, tra le due parti non ha fatto che crescere. E se è vero che molte responsabilità le portano le classi dirigenti locali – che hanno favorito l’assistenzialismo puramente clientelare, facendosi carico di processi di sviluppo «dal basso» solo in alcuni casi, in un perverso estrattivismo che ha solo succhiato risorse senza ricadute in loco – è anche vero che per molti versi tale dualismo è stato funzionale allo sviluppo del Nord – manodopera anche istruita a basso costo, mercati a basso prezzo con delocalizzazioni nazionali e dumping – e a un blocco sociale, come si diceva un tempo, che è rimasto quello fino ai giorni nostri: borghesia economica al nord e borghesia impiegatizia al sud.

Di questo ce ne dimentichiamo, con il fastidio che si avverte nelle parole di chi reclama ora una maggiore autonomia per le regioni, che sia «differenziata», per materie. Il che è legittimo, certo, riconosciuto dalla Costituzione. Ma si chiede anche che tale autonomia sia basata sul principio che la maggior parte del gettito fiscale sia lasciato sui territori dove è prodotto, come fossero Stati indipendenti. Le regioni più ricche, così, godrebbero della loro maggior ricchezza, senza considerare che questa viene prodotta anche grazie a quei meccanismi di lungo corso descritti sopra.

Tuttavia, anche al di là di tale palese ingiustizia, che maschera un egoismo del campanile tanto gretto quanto preoccupante, si aprono domande che non trovano risposta: come possono le Regioni gestire il patrimonio infrastrutturale che riguarda il territorio nazionale nel suo complesso? E quello ambientale?

Nonostante la pandemia l’abbia ampiamente smentita, c’è dietro l’idea che le Regioni funzionino meglio dello Stato, cosa che è tutta da provare. Ma è certo che questo avvantaggerebbe amministratori e politici locali, dando loro ulteriori poteri e controllo. Si dice anche che su alcune competenze il decentramento amministrativo porterebbe vantaggi. Eppure, sappiamo bene quanto è stato dannoso decentrare competenze che sotto lo Stato funzionavano, mentre ora che sono alle Regioni, in talune aree, sono ben lontane. L’operazione «autonomia differenziata», in sostanza, sembra essere stata pensata più per avvantaggiare il ceto politico-amministrativo locale, con la scusa o la maschera della maggiore efficienza.
Povera Italia. I grillini avevano alzato la bandiera del Sud, con i loro proclami egalitari, sconfessando poi quanto promesso (cecità vuole che ora Conte ripeta quel refrain alle stesse masse immemori).

L’autonomia differenziata allargherà il baratro, facendo del Sud una volta per tutte il misero serbatoio del Nord – manodopera in cambio di mete turistiche – senza più identità se non quella di un grande parco divertimenti. E il Nord si sentirà più ricco, se non richiedere l’intervento dello Stato in ogni frangente in cui le sue risorse e capacità saranno inutili per gestire il territorio. Mentre il Paese si sfalderà, ora che le sfide globali chiamano ad una sola voce con il resto d’Europa e del mondo.

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