Quando il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, ieri davanti alle commissioni di Senato e Camera riunite per discutere sull’aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef), ha scandito «prudenza realista dei conti» e «controllo ferreo della spesa» abbiamo fatto un viaggio indietro di dieci anni e più. Era dal tempo dell’isteria dell’austerità, martellata da economisti e politici «austerici» (il neologismo geniale fu coniato da Paul Krugman) che non sentivamo snocciolare con tale decisione la teoria economica che ha aggravato la crisi del debito sovrano tra il 2008 e il 2015, e peggiorerà quella da iper-inflazione e aumento dei tassi di interesse in cui viviamo oggi.

L’EMPITO GIORGETTIANO, va detto, non è solo farina del suo sacco. È in arrivo a gennaio il «nuovo» patto di stabilità, la banca centrale europea manterrà a lungo i tassi di interesse alti devastando i salari, la «crescita» cala man mano che si moltiplicano le guerre dall’Ucraina a Gaza-Israele. Per l’anno in corso ieri il Fondo Monetario Internazionale ha previsto una crescita dello 0,7%. «se in Medio Oriente la situazione peggiora, non soltanto in Italia ma a livello globale, bisognerà fare altre riflessioni» ha detto Giorgetti.

«QUESTA MANOVRA implica un taglio della spesa, questo significa che qualcuno non sarà contento – ha continuato – Il ferreo controllo dell’andamento della spesa diventerà un imperativo non più eludibile». In questa cornice il ministro leghista ha mandato un messaggio trasversale alla maggioranza e all’opposizione che si apprestano oggi a votare lo scostamento di bilancio pari a 15,7 miliardi di euro, chiesto dal governo nella Nadef. «Io sarò – ha detto – contro qualsiasi tipo di emendamento che aumenterà la spesa con maggiori entrate, lo dico anche a beneficio del parlamento».

IL MAGGIORE DEFICIT pianificato dal governo sarà occupato per 8/10 miliardi a pagare il taglio al cuneo fiscale, un’altra misura una tantum per evitare di fare una strutturale politica dei salari e una riforma fiscale redistributiva, opposta a quella ipotizzata – senza soldi – dal governo. «Metteremo 60-80-100 euro in più al mese nelle buste paga dei redditi medio-bassi. È doveroso». Su questo «bonus» Giorgetti si è inalberato, rivendicando il suo essere «ministro politico». Il realismo che professa non gli impedisce di erogare una mancia.

L’ANNO PROSSIMO, in una situazione economica che si preannuncia peggiore, è probabile che questi soldi non ci saranno. Ed è tutto da vedere quante saranno le briciole promesse da Giorgetti per rinnovare i contratti del pubblico impiego per il triennio 2022-2024, con particolare attenzione al personale sanitario. Non è chiaro ancora con quali risorse, sempre che non si stia pensando anche in questo caso all’«una tantum». Sembrano lontani i «4 miliardi» chiesti dal ministro Orazio Schillaci.

GIORGETTI ha confermato l’intenzione, tutta da verificare, di procedere con i tagli alla spesa dei ministeri (sarebbero 2 miliardi di euro) e a un piano di privatizzazione mostruoso da 20 miliardi in tre anni. Con il tono da sfinge, alle prese con l’esercizio ragionieristico della legge di bilancio, Giorgetti ha detto che le «dismissioni» potrebbero riguardare indifferentemente le Ferrovie, le autostrade. «L’inversione dei fattori, come dicono a scuola, potrebbe aiutare a capire» il rebus. È un «percorso ad ostacoli che vogliamo comunque perseguire». Le prossime tappe saranno: l’operazione Ita-Lufthansa «su cui pesano ostacoli imperscrutabili», il Monte dei Paschi «che ha una tempistica di vendita già programmata». È il ritorno all’Ancien Régime neoliberale: dalle illusioni dello «Stato imprenditore» alle fallacie dello «Stato privatizzatore» che cerca di compensare i tagli, pagare «misure sociali», vendendo il patrimonio.

TRA MEZZE PAROLE, non detti e idee confuse alcune parole sensate sono emerse ieri nell’audizione della presidente dell’Ufficio Parlamentare di bilancio Lilia Cavallari: «Vi è incertezza sull’effettiva realizzazione del programma di dismissioni mobiliari, dal quale dovrebbero derivare proventi per almeno l’1% del Pil entro il 2026. Si tratta di importi rilevanti senza privatizzazioni, avremo mezzo punto di debito in più nel 2026».

QUANDO LA LEGGE di bilancio sarà approvata, e la sua polvere sarà dispersa, sarà chiaro quanto la pandemia sia passata invano e gli annunci di una «svolta» siano state retoriche buttate al vento. In Italia sembra di stare nel giorno della marmotta. Prima o poi si torna a vivere in una «morality play» protestante, il dramma teologico in cui il protagonista è un predicatore protestante che fustiga i vizi delle «cicale» mediterranee. La «scienza triste» dell’economia deve sempre fare soffrire, in fondo.