Il più importante archivio sulla Terra del Fuoco è custodito in una università americana, il Dartmouth College, nel New Hampshire. È tutto quello che ha raccolto l’esploratore Charles Wellington Furlong (1874-1967), fin dalla prima spedizione nel 1907. Sul retro della biblioteca universitaria, per dieci metri di scaffali si affastellano le casse con diari, documenti, disegni, un catalogo di impronte dei piedi e dati biometrici, un vocabolario, le registrazioni sonore dei canti. E soprattutto tante foto: è passato più di un secolo, ma tuttora le immagini più iconiche di questo leggendario lembo dell’America australe hanno proprio la sua firma.

Nei chioschi della Patagonia, negli uffici turistici, negli ostelli o negli aeroporti ancora ci si imbatte in cartoline e banner che riproducono forse la più famosa delle foto di Furlgon: ritrae un gruppo selk’nam in cammino, uomini, donne e bambini, avvolti in mantelli di pelliccia, i loro corpi riflessi nell’acqua, sotto un cielo che sembra appeso a un’insostenibile tensione.
Laura A. Ogden ha passato gli ultimi anni a rovistare proprio in quegli scatoloni, a decifrare una calligrafia incomprensibile, a riflettere sulle immagini e le voci raccolte dall’esploratore. Antropologa ambientale, figlia di due naturalisti che passavano interminabili ore nelle mangrovie delle Everglades in Florida, via via che Laura A. Odgen si immergeva nell’archivio di Furlong e poi nel lavoro sul campo, è riuscita a mettere in forma un dispositivo di ecologia della memoria e di archeologia del presente allo stesso tempo. Per farlo, ha proceduto sovrapponendo varie mappe: la geografia umana, dei vivi e dei morti, nativi e coloni; il mondo animale, le creature autoctone e quelle di una diaspora forzosa in nome di un’economia predatoria; il paesaggio della memoria, così interrotto e così manipolato.

Sovrapponendo tutte queste mappe ecologiche e coloniali, il presente della Terra del Fuoco appare come lo specchio di un passato inventato e perenne. La Terra del Fuoco ha smesso di essere un luogo per diventare un tropo.
Laura A.Ogden lo sviscera in Perdita e meraviglia alla fine del mondo, il suo saggio uscito ora in Italia per le edizioni add (pagg.239, euro 16). Un libro di frammenti, con dissertazioni scientifiche, narrazioni, osservazioni sul terreno, performance antropologiche, appunti autobiografici. Il primo ostacolo che ha dovuto affrontare, racconta, è stata la rabbia verso lo sguardo coloniale dell’esploratore americano. La stessa rabbia su cui era incappata anche Anne Chapman, una delle matriarche della etnologia americana, quando si è imbattuta nei diari di Charles Darwin.

Il celebre scienziato era arrivato alla Terra del Fuoco nel 1832, a quel tempo giovane e affamato di conoscenza. Si era imbarcato nella HMS Beagle che aveva riportato nell’estremità del Cono Sur tre dei quattro giovani fuegini che erano stati portati alla corte inglese due anni prima (uno era nel frattempo morto di vaiolo). A leggere le pagine di Darwin ci addentriamo nei pensieri di uno sprezzante uomo europeo, incapace di vedere davvero e persino di provare un po’ di empatia: «Le famigerate descrizioni che Darwin fornì dei fuegini, selvaggi incivili ai suoi occhi, determinarono il modo in cui la regione e i suoi popoli furono in seguito rappresentati e conosciuti», annota l’autrice.

Da qui la rabbia che anche Laura A.Ogden prova. Ma a quel punto trasforma quel sentimento amaro in una sofisticata operazione di riscrittura. Cerca insomma di rovesciare l’archivio impolverato (eppure dispositivo potentemente operativo) di Furlang in un organismo del presente. Con l’aiuto di alcuni ricercatori cileni, porta le foto dell’esploratore ad alcuni anziani selk’nam e yagán per mettere insieme frammenti di memoria, di saperi, di storie tramandate, di dettagli sugli accampamenti, i vestiti, i luoghi, le persone, le parentele e i segni sociali. È come se riconsegnasse un album di famiglia manipolato dal fotografo. «Un modo per decolonizzare l’archivio», dice.

L’autrice s’impunta così a scuotere il tropo della Terra del Fuoco come archetipo del selvaggio, come mito sulla scomparsa dei barbari, icona della meraviglia naturale, baratro sul finis terrae. Il luogo «alla fine del mondo», appunto, come siamo abituati a definirla. Sottolinea l’autrice, ricordando un altro libro cult, Ultimo confine del mondo di E.Lucas Bridegs, del 1948: «Il tropo della fine del mondo comunica un senso di marginalità estrema che va oltre la sua geografia; un terreno moralmente insalubre, una geografia che elude la civiltà».

La stessa estinzione dei popoli selk’nam e yagán è stata ripetuta così tanto, sulla scia di una colonizzazione spietata, una letterale caccia all’uomo, che ha finito per essere un brand turistico più che un dramma genocida. È una verità sentita e rappresentata come un dato ineluttabile, così eclatante da essere usata per nascondere qualunque responsabilità. Ma è una verità che nasconde anche l’altra verità: nell’ultimo censimento cileno, 1144 persone si definiscono tutt’ora come selk’nam, e un altro migliaio sul lato argentino. Parlare dei morti, perché estinti, è non vedere né riconoscere i vivi. Nel 2009, quando il re e la regina di Norvegia sono andati a visitare e sostenere i produttori di salmoni, si sono imbattuti in una arrabbiata manifestazione di nativi. Una foto li immortala mentre ascoltano la abuela Cristina Calderon, anziana yagán, insieme a David Alday il presidente della comunità e Alberto Serrano, direttore del Museo di Antropologia. La lettera che consegnano ai reali norvegesi è un grido di dolore: per il presente, piuttosto che per il passato.

I loro salmoni oggi, i cui allevamenti hanno intossicato le acque; i castori trapiantati negli anni ’40 per inseguire il sogno mai avverato di esportare pellicce e che ora a frotte sradicano qualunque cosa; così come i maiali e le pecore importate dai coloni che hanno desertificato i pascoli; e pure i batteri e i virus che hanno decimato le persone tanto quanto i fucili e la parola di Dio: tutto questo è stato messo al servizio di una narrazione, prima ancora di una invasione brutale. Una narrazione carsica, che cuce il passato con il presente non in modo lineare, ma lo stira per cancellazioni e rammendi successivi.
Quello di Charles Wellington Furlong non è solo un archivio, ma sembra l’archivio di un archivio. A resistere è il tropo della Terra del Fuoco, dentro cui bisogna farsi largo – come fa Laura A.Ogden – per trovare le perdite e le meraviglie. «Non solo il colonialismo è un processo perenne – scrive – ma il presente si pone all’incrocio di più temporalità, molte delle quali resistono allo slancio in avanti del tempo statigrafico. Scrivendo questo libro ho imparato che il presente esiste nel e attraverso il tempo intrecciato». Alla fine, «quel tempo intrecciato complica e supera la cronologia della terra archivistica».